Cosa abbia rappresentato Eko nel nostro paese, ma non solo, per la diffusione di massa degli strumenti musicali, non è certo necessario ripercorrerlo in questa sede. Allo stesso modo è quasi superfluo ricordare chi sia stato Oliviero Pigini e quanto fosse carismatica la sua figura, da molti punti di vista. Quello che probabilmente pochi sanno è che una delle abilità di Pigini, forse la più importante, stava nel saper scegliere bene i suoi collaboratori, cui delegava senza problemi responsabilità di peso. Remo Serrangeli è uno di questi: la sua mano di progettista è presente in tutti gli strumenti che hanno fatto la storia della casa di Recanati. E ancora oggi, a settant’anni suonati, è l’uomo della rinascita del marchio, che ha curato tutta la riedizione della serie Vintage di Eko. Simpaticissimo, cordiale e disponibile, in una lunga chiacchierata ha ripercorso trent’anni di storia contemporanea della musica di casa nostra, con una serie di aneddoti davvero fantastica.
Come è cominciata la tua carriera in Eko?
Ci sono arrivato nel 1965. Prima mi sono diplomato perito meccanico e ho frequentato, all’Alfa Romeo di Milano, un corso di specializzazione in materie tecniche e organizzative. Era finanziato dall’IRI e dal Ministero dell’Istruzione e vi si accedeva per concorso, visto che ti davano anche una borsa di studio. Per un appassionato d’auto come ero in quel periodo, era un’occasione unica. Nella realtà dei fatti, poi, il corso si è rivelato non tanto dedicato alla progettazione dei veicoli, come speravo, ma piuttosto incentrato sull’organizzazione aziendale. Terminato il corso, mi sono poi iscritto all’università. Visto che, in questo modo, avevo ottenuto l’abilitazione a insegnare, ho fatto domanda in provveditorato per integrare allo studio qualche ora di lavoro. Così sono entrato in contatto con la scuola privata diretta da Lamberto Pigini. Quando ci siamo incontrati mi ha subito proposto di mettermi in contatto con suo fratello, che stava cercando per i suoi stabilimenti uno con le mie competenze. Sul subito ho fatto parecchia resistenza. Avevo già cominciato l’Università e non stavo cercando un’occupazione a tempo pieno. Ha insisto a tal punto, che alla fino ho accettato almeno di fare un colloquio, tanto… mi sono detto, non mi costa nulla. L’incontro con Oliviero Pigini è stato una sorta di rivelazione: il personaggio mi ha subito conquistato, aveva carisma. E anche la ‘chitarra’, che non avevo mai preso in mano realmente, è stata una scoperta.
Quindi nemmeno suonavi la chitarra all’epoca?
No, non ne avevo neanche mai vista una da vicino! Ma Oliviero mi ha conquistato e mi ha convinto. Così ho cominciato a lavorare in Eko, all’organizzazione delle linee di produzione. In particolare seguivo la costruzione dei manici per Vox e per gli Stati Uniti. Del resto, in quel momento, il 70/80% della produzione era per l’estero.
Alla morte di Pigini sono poi diventato il responsabile del settore chitarre, mentre Pierdominici, direttore generale ha preso in mano tutto il settore dell’elettronica. Che in quegli anni era quello che tirava di più. Del resto, noi siamo sempre posizionati sulla fascia medio bassa del mercato, ma con prodotti ottimi. Il Tiger, il primo organo elettronico con amplificazione incorporata, è stata un successo pazzesco: 55.000 pezzi in tre anni. A quel punto avevo 32 anni ed ero già dirigente, ormai ero legato all’azienda e ho portato avanti il mio impegno. Ero responsabile del settore ‘legno’, dell’officina e della manutenzione: una forza lavoro attorno ai 170/180 operai, a secondo dei momenti e delle necessità.
Nel ’74 ho deciso di affrontare la progettazione delle chitarre in maniera più professionale, sia per acustiche che per le classiche e le elettriche. Parallelamente, tramite la Bérben e il Maestro Boccosi, abbiamo contattato tutte le scuole di musica e i conservatori e, ispirandomi a quella che già era stata un’idea di Pigini, abbiamo rilanciato il Concorso di Chitarra. Siamo ripartiti proprio da dove Oliviero lo aveva lasciato, dalla Sesta Edizione che abbiamo tenuto in Ancona. La giuria era di livello altissimo: abbiamo avuto Gangi, Carfagna, l’ingegner Ciurlo. Quest’ultimo era un personaggio pazzesco, ho imparato moltissimo da lui. Abbiamo fatto insieme degli studi di progettazione interessantissimi su una chitarra a manico cavo, che poi abbiamo realizzato in 12 esemplari con piccole differenze. Grazie a lui ho ripreso a calcolare, in fase di progettazione, le forze agenti sullo strumento. Ma sto divagando. Al concorso poi abbiamo avuto in giuria anche Palladino, altro personaggio strano, nessuno aveva il coraggio di parlarci: grande concertista ma decisamente poco socievole. Io invece ci andavo d’accordo. Raccontava come, dopo la guerra, aveva lavorato per la radio americana, dove si suonava in diretta dal vivo.
Insomma, il concorso richiamava il meglio di quello che c’era in circolazione all’epoca e quindi aveva un ottimo successo. Trecento, quattrocento iscritti l’anno. Erano tre giorni devastanti: ognuno portava un pezzo libero ed uno di obbligo. Questo voleva dire ascoltare centinaia di volte lo stesso brano. Però questo ci ha spalancato le porte delle scuole di musica.
Un altro passo fondamentale poi è stato il corso di chitarra in dispense di Gangi e Cerri…
Scusami, non posso fare a meno di sorridere: anch’io ho cominciato a suonare proprio con quello…
Vedi, appunto. Con la pubblicità su quello e possibilità di comprare la chitarra assieme all’abbonamento, abbiamo venduto qualcosa come 6.000 pezzi. La 9051, un buon strumento classico con il dovetail. Un’altra bellissima chitarra che abbiamo messo in produzione poco dopo è stata l’Alborada, con la caratteristica paletta forata. Nel ’72 ho visitato in Germania la fabbrica di Hopf, che produceva anche chitarre con fascia e fondo in plastica (noi ne abbiamo montate circa 200). Una bruttura. Ma si cercava di lavorare, il mercato era quello che era con l’arrivo di giapponesi e coreani. E Hopf mi ha mostrato le sue chitarre da concerto, che costruiva con questa paletta particolare. Come sono tornato a casa è nata l’Alborada!
Nel ’75, grazie all’ingresso in azienda di un giovane ingegnere appena laureato, Francesco Guzzini, molto promettente, abbiamo cominciato a sviluppare lo studio della fisica dello strumento, sempre in collaborazione dell’ing Ciurlo. Sono andato a Cremona a vedere cosa usavano all’università per queste cose e ho comperato esattamente gli stessi macchinari. All’epoca ho speso 37milioni di lire… adesso con 5mila Euro si fa tutto, pazzesco. La Giuliani, che in quel momento era il nostro modello di punta, veniva spedita accompagnata dalla curva di risposta realizzata con queste apparecchiature. E davamo ai proprietari la possibilità, dopo qualche anno, di venire in fabbrica a ripetere il test e vedere come era maturato lo strumento.
Molto interessante.
Eh sì, e ne abbiamo visti parecchi che sono tornati a fare la verifica. Dopo qualche anno, quando le fibre del legno si inossano, aumenta parecchio il volume.
Comunque, sulla base di questi primi studi, siamo partiti anche con la progettazione delle acustiche. In quel periodo sono entrato in contatto con John… e sono anni che cerco di ricordami il cognome, ma proprio non ci riesco. Però se dovessi incontrarlo lo riconoscerei ancora. Un americano, sposato con una svedese, che era Area Manager della Martin in Europa. Un chitarrista spettacolare, flatpicking, passavo le ore ad ascoltarlo. Ci siamo conosciuti a Francoforte e mi ha manifestato la sua intenzione di mettersi in proprio e realizzare a basso costo delle chitarre solid top con abete Val di Fiemme, da importare in America. E’ venuto a Recanati e abbiamo progettato assieme un’incatenatura che, diciamocelo, era sputata quella della Martin. La Korral è nata così ed è stato il nostro ingresso nel campo delle acustiche professionali. Ce ne sono ancora parecchie in giro, molto belle, con la tastiera in ebano. Il primo lotto che gli abbiamo spedito era di 200 pezzi e ricordo che si fece anche parecchia fatica a far rientrare i soldi, poi.
Alla fine degli anni ’70 poi è arrivato Edorado Bennato che suonava con la nostra 12 corde, la Ranger. Quando è partito per il tour di ‘Sono solo canzonette’, che aveva già venduto più di un milione di copie, gliene abbiamo data una nera. Quell’estate ho dovuto annullare parte delle ferie agli operai per trattenerli in fabbrica e far fronte agli ordini che stavano arrivando: ne abbiamo vendute 6.500, tutte nere. Edoardo è fantastico. Mi ha raccontato, quando poi ci siamo conosciuti di persona, che aveva comprato la sua prima 12 corde a metà degli anni ’60 a Napoli. Ne vendevamo tantissime, perché avevamo la convenzione con gli stores della Navy americana e, quando arrivavano in porto le navi con i soldati che rientravano dal Vietnam, dovevamo mandare camionate di chitarre per far fronte agli ordini. Comunque, alla sua, dopo poco si è staccata la paletta. E’ partito da Napoli, con l’autostop, è arrivato fino a Recanati con la chitarra rotta per farsela riparare. Si è presentato in portineria con la paletta in mano e ricordo che mi hanno chiamato per sapere cosa fare. Ho dato disposizioni perché gli sostituissero il manico e facessero l’assetto allo strumento, senza fargli pagare nulla. Ma non ci siamo visti quella volta… me lo ha raccontato poi lui anni dopo. Così è tornato a casa felice e incredulo.
Un altro passo importante, sul versante delle elettriche però, è stata la M24. L’abbiamo presentata a Francoforte e ha avuto un gran successo. Era però uno strumento parecchio costoso, perché era monoblocco. Un giovane americano, D’Agostino, che fabbricava anche corde, era rimasto particolarmente colpito da questa chitarra e ne ha ordinate 150, più un centinaio della M20 – che era la versione più economica – marchiate a suo nome. Tra l’altro le aveva volute con i nostri pick up, non i Di Marzio che erano disponibili come opzione, perché gli piacevano proprio. In quegli anni i gruppi italiani più noti erano di casa nel nostro stabilimento, venivano a trovarci, mangiavano in mensa, si collaborava a vari livelli. Il tastierista dei Cugini di Campagna una volta ha visto la M24 e mi ha fatto notare che era proprio copiata pari pari dalle D’Agostino americane! Anche se le D’Agostino erano decisamente meglio, non c’era paragone…
Chissà le risate…
Eh, ne ho viste un po’ di tutti i colori, di questo genere. Comunque, grazie anche all’apporto di Ciurlo, da cui mi recavo periodicamente per un confronto sui progetti, abbiamo continuato a sviluppare in parallelo tutti e tre i settori della chitarra.
Immagino avrai conosciuto tutti gli artisti della scena italiana di quel periodo.
Cosa vuoi, eravamo in contatto un po’ con tutti. Gli proponevamo di strumenti e a volte li accettavano e li usavano, altre volte dicevano no grazie, preferisco usare X o Y, altre volte le prendevano per poi regalarle o dimenticarle in un angolo. Uno a cui sono rimasto particolarmente legato è Rino Gaetano. Un grande. Era davvero un chitarrista pazzesco, al di là delle capacità vocali. Non perdeva mai occasione per passare a salutarmi. Anche con il Banco c’era un ottimo rapporto. Pensa che una volta sono andato a trovare anche De Gregori, doveva suonare ad Ancona, e mi sono presentato con una chitarra da fargli provare. E’ stato gentilissimo, mi ha accolto nella sua roulotte, ha guardato la chitarra e poi mi fa: guarda Remo, ho appena coronato il sogno della vita mia, una Martin D 45. E non ho testa per altro, mi spiace. Così me ne sono tornato a casa con la mia chitarra.
Anche con i gruppi dell’area romana eravamo molto legati. Ho conosciuto all’epoca un giovanissimo Andrea Carpi, un nome che forse ti dice qualcosa. Era molto amico di Ettore De Carolis. La Chetro, un altro modello che ha avuto un bel successo in quegli anni, è dedicata proprio alla figlia di Ettore, che si chiama appunto così. La prima che abbiamo realizzato, apposta per lui, era a 9 corde. Con una accordatura che, onestamente, non ci ho mai capito nulla. E’ probabile che il tuo direttore ne sappia molto più di me.
Finito questo periodo, con l’arrivo della crisi dell’azienda, ho preferito andarmene e fare altre esperienze.
Quando sei rientrato in Eko?
Mi hanno richiamato Lorenzetti e Pigini nel ’92, per avviare una joint venture con la Romania. Il referente era il principale costruttore di strumenti della nazione (Hora Violins), in Transilvania. Il progetto però non è mai partito, anche se una serie di classiche economiche, progettate e realizzate in quella sede, ha avuto un ottimo riscontro: ne abbiamo vendute 8.000 e non ne è mai tornata indietro una con qualche problema, tutte perfette. Finito questo esperimento, mi sono trattenuto nell’Est e ho avviato in Romania, per conto di una grande azienda Italiana, una segheria per produrre elementi in legno per cucine componibili, con 60 operai!
Nel 2004, per la terza volta, sono stato ricontattato da Stelvio Lorenzetti, divenuto nel frattempo direttore generale e amministratore delegato della Eko Musicgroup, per riprendere i nostri rapporti. Nel frattempo avevo deciso di andare in pensione, anche perché in Romania avevo avuto un piccolo incidente – che mi ha portato via due falangi della mani sinistra – lasciando tutto in mano a mio figlio, Adalberto. Ma alla fine ho accettato e nel 2005 ho ridisegnato tutto il catalogo attuale della Eko da zero, riprendendo in mano i vecchi progetti. Dedicandomi soprattutto alla serie Vintage, acustiche ed elettriche.
Immagino che il modo di lavorare e progettare, nel frattempo fosse cambiato parecchio.
In passato eravamo più legati alle macchine, il concetto di base della lavorazione era molto più ‘industriale’. Pensa che in Cina ora stanno utilizzando un impianto di verniciatura uguale a quello che alla Eko abbiamo installato quando era ancora vivo Pigini, nel 1967.… siamo sempre stati molto all’avanguardia sulla tecnologia, un passo avanti a tutti.
E infatti ci siamo trovati parecchio male a lavorare con loro. In particolare il concetto di bolt on sulle chitarre acustiche non si riesce a farglielo digerire. A un certo punto ho dovuto coinvolgere anche mio figlio, Adalberto, in questo progetto. Perché alla mia età andare avanti e indietro dalla Cina… non ce la facevo più. All’inizio ha fatto un po’ di resistenza, perché ormai si era sistemato con il suo lavoro in Repubblica Ceca, ma alla fine l’ho convinto. Ora è lui che si occupa dei progetti e realizzazione in Oriente, mentre io seguo in parte la progettazione dall’Italia.
Pensa che il Fast Lock è nato proprio come soluzione ai problemi di settaggio degli strumenti. L’ispirazione è venuta dal micro tilt della Fender, che permette di variare l’angolazione del manico rispetto al corpo della chitarra, in maniera molto complicata….. Noi avevamo bisogno di qualcosa di simile che ci permettesse di fare un rapido set up agli strumenti, prima della distribuzione. E’ stata fondamentale, in questo caso, l’esperienza maturata nella fabbricazione di tavoli di arredo, che devono avere stabilità e resistenza. Nei tavoli si usa un semplice meccanismo che ha effetto moltiplicatore della forza applicata (anche di 20 volte). Lo abbiamo impiegato per fissare il manico alla cassa. Questo ci da la possibilità di variare il set up azionando la vite che varia l’angolazione del manico; cosa fattibile da tutti! Pensa che non lo volevo neanche brevettare, mi sembrava un’idea talmente banale…
Ma, in occasione della presentazione alla stampa internazionale (FF2009), ci siamo resi conto delle grandi possibilità del Fastlok. E’ stato anche apprezzato tantissimo da Massimo Varini, che ne è stato subito entusiasta. Si è reso conto del potenziale che la cosa aveva, anche dal punto di vista del marketing, e l’ha sposata su tutti i suoi modelli signature.
Adesso stai lavorando su qualcosa di nuovo?
Stiamo finendo la classica, sempre firmata da Massimo. Avrà il Fast Lock, ma senza trussrod, che su uno strumento così diventa praticamente inutile. Innesto al manico al XIV tasto. Avrà la possibilità di alzare le corde fino a 9 mm al XII tasto. Questo anche per rispondere alle precise richieste di insegnanti di conservatorio (come mi suggerì il maestro Abner Rossi, con cui ho collaborato molti anni fa) di avere strumenti che permettano di fare una ‘ginnastica’ impegnativa per la mano sinistra ma che possano, al tempo stesso, essere riportati velocemente ad un settaggio standard per lo studio. Il tutto senza variare il diapason. E’ pronto poi anche il modello a 12 corde MIA Varini, che completerà la gamma. Già il primo prototipo è in prova e a breve dovremmo avere il via per la produzione. Anche la Semiacustica, SA Varini, nel suo piccolo è un capolavoro di progettazione, specialmente la paletta e il posizionamento delle meccaniche, che permettono un tiraggio delle corde in maniera lineare. Ho trovato in Massimo Varini un giovane molto competente, con cui è un vero piacere lavorare; un professionista serio e molto preparato.
Commenti
Posta un commento