Negli ultimi anni mi sono dedicato quasi esclusivamente allo studio del fingerstyle. E una delle poche cose che ho capito – o che pensavo di aver capito – era lo strumento di cui avevo bisogno per le mie necessità. Una chitarra a cassa piccola, OM o 000, scala lunga, nut almeno di 46 mm. Abete e palissandro, manico abbastanza sottile. Il vintage non mi interessa, ho bisogno di uno strumento affidabile. E ne ho acquistata una (due per la verità, ma questa è un’altra storia) che per altro mi ha sempre dato ottime soddisfazioni.
L’anno scorso ho deciso di vendere l’ultima elettrica che mi era rimasta in casa, una Strato made in Japan del 1980. Ho piazzato il mio bell’annuncio sul solito sito e ho cominciato l’abituale calvario (ma anche questa è un’altra storia). In mezzo al marasma di mail che si accompagna a queste malsane idee (“Ti interessa uno scambio con una testata Marshall?” – “Quale parte di ‘accetto permute solo con chitarre acustiche’ non ti è chiara?”) arriva un messaggio da un signore molto cortese che mi offre uno scambio alla pari con una Gibson J40. Un’occhiata veloce sul web e scopro le caratteristiche dello strumento: dread in abete e noce, pinless bridge, scala corta e nut da 44 mm. Non ci siamo proprio. Insiste e si offre di mandarmela in visione. Se mi piace ok, si fa lo scambio, altrimenti basta restituirla. Cedo, incuriosito e lusingato da tanta fiducia.
Come anticipato dalle foto scambiate via mail, la chitarra è parecchio vissuta. Segni su cassa e tavola, manico in barca, binding un po’ crepato e scollato, corde d’annata. Sono perplesso, ma due accordi ce li faccio: la botta che mi arriva immediatamente nello stomaco è un primo, chiaro segno di resa incondizionata. Accompagnato da ineqivocabili sintomi di amore a prima vista. Ho messo a posto il manico, cambiato le corde, dato una pulita e ho comiciato a suonarla. Ah sì, il giorno dopo ho spedito la ‘jappa’ al suo nuovo proprietario.
Ho poi cercato di trovare qualche informazione in più sulla nuova arrivata. La J40 è un modello costruito da mamma Gibson a cavallo tra il 1971 e il 1982, per altro non un periodo d’oro per la casa americana, almeno per quanto riguarda la quotazione del vintage. La signora in questione, però, ha un seriale che la data 1962, oltre ad avere fasce e fondo in mogano. Probabile che si tratti di un modello custom, con un errore nella marchiatura. Se fosse un francobollo, con un’anomalia del genere, sarebbe inestimabile. Meno probabile, ma non impossibile, che sia uno dei prototipi della serie poi messa in commercio.
Quello che è certo è che suona in maniera impressionante: oltre alla botta imponente dei bassi, la definizione su tutta la gamma è perfetta, i cantini sono quanto di meglio mi sia capitato di ascoltare fino ad ora. La cosa sorprendente è che è perfetta in fingerstyle quanto con il plettro, versatile, comodissima da suonare, perfettamente bilanciata.
E’ bello avere delle certezze nella vita, danno sicurezza!
Per passare (quasi) indenni attraverso mezzo secolo di plettrate bisogna anche avere un po’ di fortuna, e lo ha dimostrato in seguito. Aveva bisogno di sostituire i tasti e l’ho affidata a un liutaio di fiducia. Un po’ per farmi un bel lavoro, un po’ perché siamo amici, se l’è presa comoda. O almeno così pensavo. Dopo alcuni mesi di telefonate sempre più scocciate, ha finalmente ammesso che gli si era allagato il laboratorio (alluvione, non tubi rotti). Ma la chitarra era in salvo, solo che non era in condizioni di lavorare. Quando finalmente è tornata a casa, con un lavoro fatto ad arte, devo ammetterlo, aveva di nuovo il manico imbarcato. E te credo, con tutta quell’umidità. Mentre lo regolavo si è spanato il trussrod… per fortuna solo il dado in testa e non la vite a fondo manico. Altro liutaio (errare è umano, perseverare meno) che è riuscito a rifilettare il truss e a sostituire la boccola. In totale è stata via quasi un anno.
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