Peter Gottschall

 


Il silenzio assordante che ha accolto la notizia della scomparsa di Peter Gottschall mi ha colpito profondamente. Come penso (spero) abbia colpito tutti quelli che, in tanti anni, hanno imparato ad apprezzare quel distinto signore tedesco, di poche parole, che era diventato una presenza costante al Festival di Sarzana. Quello con le chitarre strane‘. Le tante amicizie comuni ci hanno portato a una frequentazione occasionale negli anni, fatta di sporadici scambi di battute sui sui strumenti quando capitava l‘occasione. E‘ proprio vero che l‘importanza delle cose, degli incontri, delle persone, troppo spesso non si riesce ad afferrare al momento giusto.


In tutta onestà, dei suoi strumenti mi piaceva molto il suono, un po‘ meno l‘estetica. Questione di gusti. Ma so riconoscere un genio, quando lo incontro. E Peter, a modo suo lo era. Almeno quanto era coraggioso, nell‘affrontare la vita e nel portare avanti un progetto come il suo, al limite del visionario. Nel 2008 ho proposto alla rivista Chitarre – con cui collaboravo all‘epoca – un servizio su Gottschall e l‘ho intervistato, grazie anche alla collaborazione di Giovanni Pelosi che ha fatto da tramite. Quando ho messo mano al materiale che conservo su Peter, mi sono reso conto che in quell‘articolo (pubblicato poi nel maggio del 2009), per esigenze varie, alla fine erano finiti solo alcuni stralci di quell‘intervista, all‘interno di un discorso più centrato sulle chitarre che sulla persona. Quindi, invece di raccontarvi a modo mio la storia di Peter e dei suoi strumenti, lascerò che sia proprio lui a rompere il silenzio. Mi pare sia il modo migliore per ricordarlo.


Ci racconti una versione breve della tua storia come liutaio?


Sono nato a Weimar, in Germania, e ho studiato come attrezzista meccanico. A quindici anni ho cominciato a suonare la chitarra, sull‘onda del movimento beat degli anni
60. Ho costruito il mio primo basso elettrico nel 1968, per la band in cui suonavo. Poco tempo dopo sono poi passato alla chitarra solista. Contemporaneamente costruivo amplificatori, casse e mixer. Nel 1976 ho ascoltato per la prima volta Ice Water“ di Leo Kottke, che mi ha profondamente affascinato. Al punto che ho deciso, da un giorno all‘altro, di smettere di suonare rock. Mi sono comprato una 12 corde e ho cominciato a studiare fingerpicking. La mia‘ musica è diventata il Country, e ho cominciato a suonar anche il banjo a 5 corde. Sempre, ovviamente, su strumenti che costruivo da solo. Nel 1985 mi sono trasferito nella Germania Ovest, a Uttenweiler, un paesino vicino a Biberach/Riss. Ho aperto un piccolo studio di registrazione, continuando in parallelo a suonare banjo e chitarra acustica in una band e costruire strumenti.


Ti sei formato seguendo qualche modello di riferimento?

No, anche perché non ho mai avuto intenzione di costruire chitarre in maniera tradizionale. L’idea di base del Funnelbody l’ho concepita nel 1994. E ha da subito avuto un’enorme presa su di me, soprattutto perché nessuno dei liutai in circolazione aveva mai provato a fare nulla di simile. Ho letto libri, guardato video e ho fatto molta pratica. Del resto, ho sempre amato lavorare con il legno. Ma rimango un liutaio autodidatta. E questo, con il senno di poi, è stata la mia fortuna, perché un altro, con una formazione canonica, non avrebbe avuto l’apertura mentale per un approccio così inusuale alla progettazione. Non ho mai realizzato chitarre ‘tradizionali’ ne mi interessa farlo. Ce ne sono già tante, ottime, in circolazione.


Possiamo approfondire un po’ come è concepito il Funnelbody? In cosa consiste?

L’ambiente della liuteria è, generalmente, abbastanza conservatore. Ma, nonostante tutto, nel corso degli anni, le particolarità di alcuni strumenti sono diventate caratteristiche irrinunciabili per tutti e oggi sono considerate la norma.


Sto lavorando sul progetto Funnelbody dal 1994 e al momento ne esistono due diverse varianti, ma il potenziale di sviluppo è ancora grande. Con questa concezione della cassa, il body non lavora in maniera tradizionale, per risonanza, ma sfrutta lo stesso principio di uno speaker, trasformandosi in una specie di megafono - funnel in inglese, appunto - che amplifica in maniera naturale il suono. Top e back sono speculari, l’assenza della buca permette di usare catenature lunghe, ma molto leggere, rendendo gli strumenti eccezionalmente risuonanti. Inoltre, nel 2000 ho introdotto il Bridge Hole Tuning su tutti i miei strumenti, fatta eccezione per i bassi. E’ un metodo di equalizzazione naturale che si basa su un principio molto semplice: l’aggiunta di alcuni piccoli fori in prossimità del ponte, il punto di massima vibrazione tra corde e legno. Lasciandoli aperti, o chiudendoli con degli appositi gommini, si va a incidere in maniera sostanziale sull’impronta sonora finale dello strumento. In questo modo il suono dello strumento è realmente streofonico, con due possibili fonti di ripresa, una di fronte e una all’attacco del manico. Comunque, le migliori idee arrivano sempre dopo grandi errori! Senza errori non si progredisce, in nessun settore.


Hai altri progetti a cui stai lavorando?

Il Funnelbody sicuramente non è ancora finito, ci sono grossi margini di miglioramento. Ad esempio le chitarre Bothside, con due strumenti in uno, sfruttando la linearità della tavola armonica: c’è ancora qualcosa che non mi convince del tutto, in questi strrumenti. Poi c’è la FB-55, un altro progetto a cui sto lavorando da tempo, ma che richiederebbe, da solo, un articolo molto lungo. La forma circolare dello strumento consente di piazzare il ponte molto vicino all’estremità del top, provocando un effetto ‘loudness’ sul suono. In pratica, si aumenta la 'quantità' di top che vibra a bassa frequenza e si rendono più squillanti gli acuti, in virtù della capacità di vibrare più facilmente per frequenze alte nella ridotta porzione del top, al di là del ponte.


Vuoi parlarci dell’amicizia che ti lega a Giovanni Pelosi?


Nel 2003 il mio stand era proprio a fianco a quello di fingerpicking.net e ho avuto la possibilità di ascoltare una serie di chitarristi incredibili: Reno Brandoni, Alex Di Reto, Dario Fornara, Alberto Pellegrinet, Boris Bursac, Rodolfo Maltese, Giorgio Cordini, Gabriele Posenato, Alberto Caltanella e Giorgio Mazzone. In particolare, è nata una bella amicizia con Giovanni Pelosi, colpa (o merito) anche delle tante sigarette fumate in compagnia. Alla fine della mostra, Giovanni mi ha ordinato la prima chitarra. In fase di realizzazione è diventato poi un vero modello signature, che ho inserito in catalogo. Con cui, tra l’altro, ha registrato il suo ultimo Cd, “Train-ing”, davvero meraviglioso. Piace molto anche alla mia mamma, che ha appena compiuto ottantaquattro anni. L’anno dopo ne ha voluta un’altra e quest’anno è stata la volta di una jumbo, per cui immagino che sia rimasto soddisfatto.


Realizzi molti strumenti diversi, ma quali sono quelli che ami di più?

Amo costruire strumenti, ma allo stesso modo anche la musica. Direi che le due cose, per me, si equivalgono. In questo momento mi sto dedicando in particolare al banjo e al dobro. Non suono più tanto l’acustica come una volta. Però ho ricominciato, un paio d’anni fa, a prendere in mano l’elettrica. Non so perché, ma è probabile che il twang della Fender faccia ormai parte del mio DNA. Ho 57 anni, è vero… ma i Rolling Sotnes sono più vecchi.


Cosa pensi della liuteria italiana?

La tradizione italiana in questo campo è enorme: violini, chitarre, mandolini… tutto ad altissimo livello. E non mancano neanche gli ottimi musicisti per valorizzare al meglio questi strumenti. Gli italiani sono molto creativi in ogni campo, e non gli mancano neanche la voglia e il coraggio di sperimentare. E’ uno splendido paese… il sole e il cibo… che meraviglia.

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