David Bromberg

Questa intervista a David Bromberg risale al 2009 edè stata pubblicata sul mensile Chitarre lo stesso anno
Questa è la cronaca di un pomeriggio di pura magia. Uno quei momenti di rara bellezza che non capitano spesso, soprattutto nel marasma di una manifestazione delle proporzioni dell’Agim di Sarzana. Ma capitano. Un grazie di cuore va ad Alessio Ambrosi, che ha fatto in modo di metterci nella stessa stanza, per un’ora abbondante, con Beppe Gambetta e David Bromberg. Oltre ad aver riportato l’artista americano nel nostro paese, che non è un dettaglio da poco. Due generazioni di chitarristi a confronto che, per prima cosa, si sono scambiati chitarre e plettri e hanno cominciato un dialogo serrato a base di flatpicking e brani tradizionali, condito da assoli, battute e aneddoti su amicizie comuni. Preparando l’attrezzatura per l’intervista e godendo dell’improvvisata gig, due considerazioni sono venute spontanee, anche se si scade nella solita retorica: quanto è semplice e immediato trovare terreno di dialogo con la musica. E più si sale di livello, più sembra tutto facile e naturale. Probabilmente era già un assaggio della jam di sabato sera, che li avrebbe poi visti insieme sul palco della manifestazione, ma di sicuro in quella mezz’oretta si sono divertiti, parecchio. La seconda? Niente telecamera nella borsa - maledizione - soltanto macchina fotografica e registratore! David Bromberg, 64 anni, cresciuto nell’area di New York a pane e Peter Seeger, è considerato a tutti gli effetti uno dei grandi della musica contemporanea. Ha suonato con i ‘mostri sacri’ della sua generazione, Bob Dylan, George Harrison, Gerry Garcia, Hot Tuna e gli Eagles, ha inciso qualcosa come 150 dischi, di cui 15 a suo nome. La sua musica è blues, e folk, e rock e tutte questo assieme. Dieci anni fa, al culmine del successo ha sciolto la sua band e si è ritirato a vita privata. Ha studiato liuteria per poi aprire un negozio specializzato nella costruzione e la riparazione di violini a Wilgminton, in Delaware. Ci è voluta tutta la pazienza di sua moglie Nancy – che non per niente suona il contrabbasso nelle ‘Angels’ e lo ha accompagnato in questo tour – per convincerlo a riprendere l’attività dal vivo e a tornare in studio. ‘Try Me One More Time’, uscito nel 2007, ce lo ha restituito più in forma che mai, con un preciso richiamo, sia nella forma che nei contenuti, alle sue origini. La copertina, con un esplicito riferimento – quella silouhette appena tratteggiata a penna - al disco omonimo del 1971 che lo ha lanciato, è di per sé una dichiarazione d’intenti. Gambetta. Penso che, a questo punto, ci sia qualche domanda per te… Chitarre. Anche se starei tutto il pomeriggio ad ascoltarvi… sì, in effetti, avrei qualche domanda… Broberg. Settecentoquattordici! Prego? Settecentoquattordici. E’ la mia risposta definitiva! [Confesso che ci ho impiegato un attimo a cogliere la citazione, mentre loro si sbellicavano dalle risate. David mi ha risposto parafrasando “la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto”, dal libro ‘Guida Galattica per Autostoppisti’ di Douglas Adams in cui, un super computer creato apposta per elaborare tale richiesta, dopo sette milioni e mezzo di anni di computi, alla fine rispondeva un laconico “42” n.d.a.] Ok, l’accendiamo? Comunque, ben tornato in Italia, Mr. Bromgerg! Grazie [in italiano]. Diciamo che questo è il mio ritorno ‘ufficiale’ come musicista. In realtà sono venuto un paio di volte nel vostro paese in vacanza e altre ancora per studiare liuteria, a Cremona. Vogliamo cominciare dalla fine, parlando un po’ del tuo ultimo lavoro, ‘Try Me One More Time’? Come è nata l’idea e come hai lavorato sui brani? Stavamo preparando uno spettacolo in Texas con Herb Pedersen e Chris Krilmahn e si chiacchierava nel back stage di quali fossero le nostri fonti di ispirazione, quali fossero stati i nostri maestri. E’ venuto fuori che sono uno dei pochi rimasti che ha studiato direttamente con il Rev. Gary Davis. Mi hanno chiesto di fare qualcosa di suo, durante lo spettacolo, una sorta di tributo. Erano trent’anni che non provavano a suonare questo genere di musica ma, visto il risultato, alla fine mi hanno chiesto perché non mettessi su disco queste cose. Ma prima di smettere di suonare, negli anni ‘80, mi sono reso conto però che era sciocco da parte mia incidere quei brani perché lui, che era ancora vivo, sicuramente li suonava molto meglio di me. Ora che non c’è più, mi sono accorto che non siamo rimasti in molti ad aver imparato direttamente da lui. Quindi aveva senso, a questo punto, iniziare a suonare i suoi brani. Mia moglie ha una band meravigliosa, le Angel Band in cui io suono la chitarra, e quando sono entrate in studio per registrare sono andato con lei. Ma ho passato veramente troppo tempo in stanze senza finestre e, sinceramente, ne avevo abbastanza. Però ho fatto amicizia con il fonico, un ottimo professionista davvero. Ho cominciato, nei ritagli di tempo, a registrare qualcosa. Un paio di volte la settimana attraversavo la strada e andavo da lui, lo studio era molto vicino a casa mia. Senza nessuno presente, senza produzione. Ho cominciato proprio con quei brani di Davis cui accennavo prima, poi qualcosa di Robert Johnsonn, alla fine alcune mie composizioni. Due/tre pezzi alla volta. Non avevo niente di particolare in mente, non seguivo un progetto preciso. Non eseguivo mai una take più di un paio di volte. Quasi senza accorgermene mi sono ritrovato il disco per le mani. E, probabilmente, è la cosa migliore che abbia mai fatto. E’ stato sorprendente, senza aver investito ore e ore in prove, ottenerlo invece, così, facilmente, in assoluto relax. Invece di provare in maniera molto intensa, ho fatto una cosa che faccio normalmente ed è venuto fuori in maniera molto naturale. La caratterista dominante del disco è una grossa mescolanza di stili, blues, folk, rock… come sei arrivato a questo modo di comporre così personale? Soprattutto mi piace divertirmi, quando suono, e da sempre sono stato molto curioso nei confronti di tutti i generi. Quando ho scoperto il ragtime, ho cercato musicisti che lo sapessero suonare per imparare per quanto mi era possibile. Anche prendendo delle lezioni. Lo stesso ho fatto con il blues, il bluegrass, il jazz… se una cosa mi piace cerco di ‘andarci ‘dentro, ascolto, studio, trovo i punti di contatto e le diversità. Ho scoperto che hai partecipato alla registrazione di circa 140 dischi. Sono più di 150, se non sbaglio. Ancora meglio. Quali sono stati quelli che ti hanno maggiormente colpito? Quali sono stati quelli che hai amato di più? C’è un disco in particolare, con Jim Ringer, in cui mi sono divertito molto, specialmente in paio di pezzi. Anche il lavoro con Rick Derringer, come si intitolava… Ah, sì, ‘All American Boy’, è stato fantastico. Mi è rimasto impresso lo studio di registrazione, un ambiente meraviglioso. Ma sono così tanti, che è difficile ricordarsi i particolari. Se posso intervenire, avrei anch’io una domanda. Ci speravo. Hai portato nella tua musica, in maniera pregevole, una sintesi dell’ispirazione che sta alla base della musica tradizionale americana. Pensi che tutto questo sia ancora attuale, che possa dare ancora qualcosa alla musica contemporanea? Assolutamente, senza dubbio. Hai mai sentito Paul O’Dell? Ha una band splendida con cui ha appena realizzato un disco veramente fantastico. La maggior parte dei brani sono arrangiamenti pop di brani tradizionali. Ma pensi che ci sia ancora molto da dire, in questo ambito? Assolutamente. E penso anche che la musica rock andrà in quella direzione. Una canzone che amo particolarmente è Mr. Blue, hai presente? [Accennando il brano con la chitarra che ancora tiene sulle ginocchia] e nella versione degli Stereolab è assolutamente sorprendente il modo in cui l’hanno stravolta. Ma il riff è inconfondibile, lo riconosci dopo pochissime note. Per restare in tema, mi piacerebbe parlare un po’ dell’amicizia che ti lega a Jorma Kaukonen… Ho un grosso debito nei confronti di Jorma, per quello che mi ha insegnato sulla musica di Rev. Gary Davis. Ha un enorme rispetto per l’intenzione del blues, quella vera. Va sul palco, si mette seduto e suona senza compromessi quello che sente, senza mediazioni. Jorma è una persona meravigliosa, davvero in grado di guidare la gente a muovere i primi passi in questo genere musicale in maniera corretta. Sono assolutamente d’accordo!
Conosci Jorma? Sono stato da lui al Fur Peace Ranch, come insegnante. E’ una persona meravigliosa. Io sono innamorato del flatpicking, ma cerco in ogni modo possibile di allontanarmi dallo stereotipo del bluegrass. Ti interessa questo tipo di espressione artistica, per andare in un ambito più moderno? Molte persone pensano al flatpicking confinato nel bluegrass... e in fondo sei stato tu il primo a suonare fuori da questi schemi. Conosci John Scholle, Jody Stecher, Pete Wernick e David Grischman Sì? Siamo tutti di New York, quella era la Dawng Music, era la New York city smoking music. Ci si sedeva tutti in circolo, si fumava erba e si suonava per ore [risate]. Così è nato quel genere di musica. Hai mai incontrato Scholl? Suona in maniera molto simile a Django. Non l’ho più visto per 35 anni. Ma quando ci siamo incontrati era brillante, poteva suonare bluegrass o jazz. Ma tutto quello che faceva era stare seduto, in casa, esplorando modi, scale e triadi. Attualmente sto lavorando con John Duke, ha iniziato a 15 anni, ora ne ha 25 ed è straordinario, mi piacerebbe che tu lo incontrassi. Le nuove generazioni hanno possibilità di fare enormi passi avanti rispetto a noi, grazie a Internet. Con quattro click scoprono più cose che quello che potevo fare io, in dieci anni, quando ho iniziato a suonare. E hanno i Dvd. La cosa più incredibile è che tu sia diventato un vero maestro in un genere così americano, così lontano dal tuo vissuto. Poi però ho suonato anche cose italiane... ti farò sentire qualcosa. Certo, lo so, ho ascoltato i tuoi dischi! >Mi piacerebbe conoscere le tua impressione sull’esibizione che hai fatto su Virtual 3D Ranch [una sorta di Second Life dedicata alla musica dal vivo, in cui gli artisti interagiscono con il pubblico, ma in forma virtuale, con i loro avatar]. E’ stato molto divertente, una cosa decisamente fuori dal comune. E’ stato bello incontrare di nuovo Michael Nesmith, era uno Monkeys. Quella è una sua creatura. Ci si esibisce davanti a un grande schermo verde, ma non si sa bene né dove si è né cosa succede attorno a te. Non hai modo di sapere quello che il pubblico vede. Ma per tutto il tempo la gente ti vede e commenta quello che stai facendo. Puoi leggere i commenti, anche se è meglio non farlo. Vedi gli avatar che a volte possono essere creature stravaganti, non necessariamente umane. E se gli piace veramente quello che fai, li vedi agitarsi come uccelli impazziti. Qual’è il tuo rapporto con tutte queste nuove tecnologie? Non sono un grande appassionato, ma neanche posso permettermi di ignorare questo mondo. Diciamo che le utilizzo per quello che mi serve, senza approfondire troppo. Mi piace lavorare con la tecnologia, scoprire cosa posso tirarci fuori. Non sono un genio dell’informatica e non pretendo assolutamente in ogni momento di avere l’ultimo grido della tecnologia, non mi interessa portarla all’estremo. La tecnologia bisogna adoperarla con attenzione, senza farsi stressare troppo. Quali sono i tuoi prossimi progetti? Sto lavorando su un progetto molto interessante. Ho chiesto a diversi musicisti di scrivere per me delle canzoni e di produrmi come cantante. Il titolo, naturalmente sarà ‘Use Me’. Los Lobos, John Hart, John Trine, Tim O’Brian, Willie Nelson, Keb Moh e tanti, tantissimi altri stanno lavorando a questo progetto. E ognuno di loro ha un suo modo, un suo stile per comporre e per produrre una canzone, davvero una bella idea.
Sì, certo, anche se sarà poi il mio fonico a fare il mix finale, per uniformare il risultato su disco. Abbiamo solo una sessione prenotata per tutti, dobbiamo fare tutto in un giorno. Però sto cercando ancora uno o due personaggi da aggiungere. Mi piacerebbe coinvolgere i Beastie Boys, che in passato hanno fatto una campionatura di Sharon… e mi hanno anche pagato. Non dovevano farlo, ma sono stati così gentili. Te lo immagini un disco con Willie Nelson e i Beastie Boys [risate]. L’ultima domanda è di rito, parliamo un po’ della tua chitarra? So che ha una storia particolare... A metà degli anni ’60 il mio amico Matt Umanov, che è un eccellente liutaio, abitava nel mio appartamento a New York. Quando ha trovato casa, mi ha chiamato per dirmi: “vieni a vedere, c’è una chitarra che devi assolutamente comprare, una volta che l’hai presa ti farò un regalo”. Mi ha portato da Fretted Instrument, nel Greenwich Village a vedere questa chitarra che diceva essere eccezionale. Si trattava di una Martin F7, una arch top, quindi con il corpo di dimensioni più grandi rispetto a una 000. Il top, danneggiato, era stato sostituito dal riparatore del negozio con uno in abete, ma flat, fatto realizzare direttamente in Martin. Il risultato era assolutamente sorprendente. La chitarra suonava in maniera incredibile. Mi ricordo ancora costava 400 $… e io li avevo! Alcuni mesi dopo averla utilizzata in maniera intensa, mi sono reso conto che era finalmente quello che stavo cercando. Matt me ne ha poi realizzata un’altra simile, derivata però da un modello a scala lunga. Martin in seguito mi ha contattato, ma non mi volevano dire che c’era richiesta sul mercato per una chitarra come la mia. Me ne mostrarono una con la stessa sagoma, ma leggermente più grossa, più profonda. E mi chiesero se volevo provarla... una chitarra meravigliosa, in effetti. Ma non mi interessava suonarla. Perché? Mi piaceva la mia. Non te lo volevamo dire, mi spiegarono, ma c’è richiesta per uno strumento come il tuo. E quindi, perché non fate una chitarra come la mia? Perché la tua non bassi. Io ho preso la mia chitarra: non ha bassi? Mi hanno guardato come un marziano. Tutti i dirigenti della Martin dicevano che non si poteva riprodurre quel suono. Alla fine ho passato alcuni giorni provando le chitarre che mi avevano portato, come questa [indicando quella che ha sulle ginocchia], ed è nato il modello M. Ma in quel periodo non me l’hanno neanche detto. Anni dopo, quando l’ho notato, ho scoperto che questa chitarra è come la mia. Il suo pregio maggiore sono i bassi, che sono perfettamente definiti. Quando vai in studio di registrazione o suoni su un sistema di amplificazione non hai quel rimbombo pazzesco… Ha un balance naturale. A questo punto, dopo un paio di pennate sullo strumento per spiegare quello che intendeva, la jam è ripartita. Spento il registratore, aperte le orecchie. Un sentito ringraziamento a Beppe Gambetta per la pazienza e la disponibilità che ha dimostrato in quest’occasione: una persona eccezionale, oltre che l’artista che tutti conosciamo e ammiriamo; grazie anche a Marco Cavina e Domenico Brioschi che mi hanno aiutato a interpretare la parlata newyorkese di David, a tratti davvero ‘ermetica’.

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