Intervista pubblicata su Chitarre nel 2008
Don Ross è un vero gigante, non solo fisicamente, ma anche e soprattutto come uomo e come artista. Uno dei pochi chitarristi acustici moderni che ha saputo assimilare appieno la lezione di Michael Hedges, metabolizzarla, e poi andare oltre, creando un suo stile personale, immediatamente riconoscibile e di forte impatto. Quasi devastante nella fisicità dell’approccio allo strumento, nella sua musica unisce in maniera creativa elementi che provengono dai più diversi generi musicali, dal r’n’blues al jazz, dal funky all’hip hop. Due volte vincitore dello USA National Fingerstyle Guitar Championship, a dimostrazione di un livello tecnico ineccepibile, diplomato in composizione al conservatorio, ha affrontato con coraggio la perdita della moglie, che lo ha lasciato con due bambine piccole. All’alba della sua “seconda vita”, come lui stesso la definisce, dopo il matrimonio dello scorso anno con la cantante Brooke Miller, lo abbiamo trovato più solido che mai, determinato, ma sempre gentile e disponibile. Al termine del seminario tenuto da Don a Gozzano (NO) lo scorso settembre, dopo lo strepitoso concerto della sera prima in occasione della rassegna Un Paese a Sei Corde, organizzata dall’Associazione Una Finestra sul Lago, c’è stato tempo e modo anche per fare quattro chiacchiere con tranquillità.
Possiamo dire ufficialmente che vieni in Italia sempre con piacere?
Vengo in Italia ogni volta che mi è possibile [sorridendo]. E ogni tanto riesco anche a fare un po’ il turista. Stavolta, che sono un po’ più tranquillo, ho fatto un salto a Genova per salutare Beppe [Gambetta, naturalmente n.d.a.]. Poi mi ha raggiunto mia figlia più grande e ne abbiamo approfittato per fare un giro a Pisa e a Firenze, dove ho anche tenuto un seminario. Sono stati due giornate meravigliose. Lei è già rientrata in Canada, purtroppo.
Vorrei parlare un po’ del tuo ultimo album in studio, Music for Vacuuming, un lavoro molto maturo in cui sembrano convergere tutte le esperienze di questi ultimi anni…
In effetti i brani che compaiono sul disco sono una sorta di raccolta di quello che ho scritto nell’arco di parecchio tempo, e riflettono esperienze vissute soprattutto nella mia “vita precedente”. Ci sono anche diverse canzoni che ho scritto al pianoforte, quando ero molto più giovane. Ed è stata una vera sfida riuscire a trasporre sulla chitarra musica composta al piano. Molto stimolante, però.
Sono molti i chitarristi che si obbligano a confrontarsi con questo metodo per comporre, mi viene in mente Pierre Bensusann…
Sì, anche Pat Metheny so che lo fa spesso. Penso che sia molto utile per evitare di finire sempre negli stessi schemi sulla chitarra, a ripetere gli stessi pattern all’infinito. Ti spinge, per forza di cose, oltre i tuoi limiti.
Questo, penso, comporta usare accordature alternative?
Certo, naturalmente, ne faccio ampio uso. Se fossi costretto ad utilizzare una o due accordature solamente, molte delle miei idee musicali non sarebbero realizzabili, per cui sono una parte fondamentale del mio bagaglio creativo. Per altri chitarristi avviene esattamente il contrario e preferiscono esplorare fino in fondo le possibilità offerte dalla standard… li rispetto per questo, ma non fa per me, non è il mio approccio alla musica.
Certo che vederti cambiare continuamente accordatura, sul palco, senza utilizzare l’accordatore, è davvero impressionante, sei di una precisione e di una rapidità sconvolgenti…
Oh, grazie. Ma è solo tanta pratica, niente di più. Inoltre cerco di pianificare la scaletta dei concerti in modo da non dover mai fare cambiamenti radicali nell’accordatura tra un brano e l’altro. In pratica si tratta di accordature vicine, che differiscono solo di poche note alla volta, così tutto diventa più veloce. Altrimenti buona parte dell’esibizione sarebbe dedicata… all’accordatura. Se poi devo proprio fare cambiamenti radicali, che impegnano un po’ più di tempo, [ridendo] ho sempre qualche storiella stupida da raccontare!
Anche Beppe mi ha detto qualcosa di simile una volta…
Immagino [sempre ridendo]. E’ molto importante anche saper far sorridere la gente, crea il giusto feeling con il pubblico.
In Music for Vaccuming hai suonato tutti gli strumenti presenti sul disco?
Sì, chitarra, basso, batteria e tastiere, ho fatto tutto da solo.
Anche per la programmazione?
Sì, anche quello. Mi sono divertito molto. Lavorare da solo mi piace quasi quanto amo suonare con altri musicisti. Per altri dischi ho spesso collaboratori con diversi artisti. Ma ora che ho portato a termine il mio home studio, con tantissimi strumenti a disposizione… è stata una vera sfida vedere se ero in grado di realizzare da solo un prodotto credibile. Anche perché spesso poi non è facile poter riproporre dal vivo cose suonate con altri. In questo modo il problema non si pone. E poi mi piace così tanto suonare il basso e la batteria!
Ho visto che hai in pubblicazione un disco nuovo, Live in your Head, ce ne vuoi parlare?
Te ne farò avere una copia appena rientro a casa. Si tratta di un disco interamente realizzato dal vivo, una sorta di retrospettiva. Per cinque anni ho raccolto le registrazioni dei vari concerti che ho fatto. Quando mi capitava, riascoltando, qualcosa di particolarmente buono, lo mettevo da parte. Poi ho cominciato a lavorare anche sulla produzione dei brani e, anche se non mi era mai capitato di stare per così tanto tempo su un album senza avere una scadenza precisa per l’uscita, il risultato è stato molto soddisfacente. E’ stato anche molto divertente, ne è uscito un giusto compromesso tra le mie performance come solista e le collaborazioni con altri musicisti.
Come lavori in fase di composizione e di arrangiamento dei brani?
Come ho spiegato anche durante il seminario, penso che il modo migliore per avvicinarsi alla composizione sia quello tradizionale. Le mie canzoni hanno sempre una struttura definita, una parte A, una parte B, un bridge, magari un ritornello. Penso che sia un ottimo modo per scrivere per qualsiasi tipo di strumento e l’unico per permettere all’ascoltatore di recepire bene quello che sto suonando. Se una parte viene ripetuta all’interno di un brano due o tre volte è più facile che rimanga impressa, che acquisti importanza e venga valorizzata. Purtroppo nella chitarra acustica c’è un po’ la tendenza a scambiare un bel suono per una buona idea. Se non c’è qualcosa di valido dietro, è facile perdersi nel brano senza riuscire a tornare indietro
Hai sicuramente un senso dell’umorismo quanto meno singolare, soprattutto nella scelta dei titoli dei dischi e dei brani: Mostro Robot, Musica per passare l’aspirapolvere, Dal vivo nella tua testa…
Temo che tu abbia ragione. Il principale responsabile però è Leo Kotke, sono cresciuto studiando sui suoi brani, cui amava titoli veramente impossibili.
Anche i b-movie degli anni ’50 devono aver avuto la loro parte
Sì, sì certo, soprattutto in Robot Monster. Devo dire che li trovo davvero molto divertenti. Sai viaggiando così tanto, incontrando continuamente persone nuove non mancano certo gli stimoli in questo senso. Ma, in effetti, alla base c’è un senso dell’umorismo abbastanza folle. Amo in particolare la comicità delirante dei Monty Python e spesso quando faccio spettacoli davanti ad un pubblico anglofono mi lascio un po’ andare ed esagero con le storielle stupide di cui parlavamo prima.
Ricordo ancora quattro anni fa a Genova, all’Acoustic Night, lo spot per il Cd dei Man of Steel
Comprate il nostro Cd [in italiano, con la voce di Paperino, risate generali].
La dimensione dal vivo “a solo” è sicuramente la più impegnativa, dal punto di vista emotivo. Come la affronti?
Non solo è la più impegnativa, ma è anche la più difficile da proporre. E’ difficile da fare bene. Ci ho impiegato due o tre anni per portare il mio show ad un livello che adesso reputo soddisfacente e che penso possa essere interessante. E, paradossalmente, è molto libero, non c’è quasi nulla di pianificato a monte. Cerco di capire quali sono le canzoni più adatte al pubblico che mi trovo davanti. In maniera molto schematica, solo per fare un esempio, mi pare che il pubblico italiano apprezzi maggiormente brani più melodici e sentimentali, mentre in America amano uno stile molto più aggressivo. Il vero talento sta nel riuscire davvero ad offrire quello che il pubblico si aspetta, che vuole sentire. E saper scherzare un po’, far sorridere la gente è molto importante. Se sei su un palco da solo, devi sembrare perfettamente a tuo agio, assolutamente rilassato.
Ma continui a studiare e a fare pratica sullo strumento?
In realtà non faccio molti esercizi con la chitarra, preferisco dedicarmi alla composizione. Nell’ultimo anno ho fatto più di cento concerti e già questo significa suonare moltissimo. Quando ho un po’ di tempo preferisco lavorare sulla mia musica.
E quali sono i tuoi progetti futuri?
Sto preparando qualcosa con Andy McKee e Michael Marning. Abbiamo fatto una serie di spettacoli assieme lo scorso anno, in cui Andy faceva l’apertura e alcuni brani con me e Michael e il risultato è stato davvero eccellente. Ci sono diversi filmati disponibili su youtube di quelle serate. Ma ho anche altre cose che bollono in pentola…
Quest’anno ricorre il decennale della scomparsa di Michael Hedges. Che ricordo hai dell’uomo e dell’artista?
Ho scoperto Michael e la sua musica a metà degli anni ’80 e sono diventato immediatamente un suo fan. Non so in quanti avessero realmente compreso quanto fosse avanti la sua musica, quanto le sue idee fossero fuori da ogni schema convenzionale… e il suono della sua chitarra era inarrivabile. Ho avuto l’occasione di conoscerlo nel 1987, grazie ad un conoscente comune che me lo ha fatto incontrare al termine di uno spettacolo. Siamo diventati subito amici e siamo rimasti in contatto. Ma Michael era una persona introversa, con cui non era facile entrare in intimità e poi… fumava un sacco di porcherie. E tutto quel fumo non faceva altro che alzare una barriera, un muro tra lui e gli altri. Quindi era molto difficile arrivare a conoscerlo bene, anche se era impossibile non ammirare e rispettare la sua arte. Abbiamo parlato diverse volte di registrare un brano insieme. Una volta gli ho fatto ascoltare un pezzo che secondo me sarebbe stato adatto, ma per lui era già perfetto così, non avrebbe saputo cosa altro aggiungere. Ne ho preparato un secondo, con più spazio per i suoi interventi ma lui… è morto. Il brano l’ho poi terminato da solo ed è dedicato alla sua memoria.
Due parole sul tuo set up attuale?
Le mie chitarre sono costruite da Marc Benetau, liutaio canadese che realizza strumenti eccellenti. La baritona, che ha la tastiera radiale in modo da contenere la scala del manico, monta un M1 e un I-Beam passivi della Baggs, la jumbo un K&K Trinity. Passano in un mixer, con cui gestisco da solo sul palco i cambi di chitarra, e vanno in un pre. Il segnale arriva al banco sdoppiato, da una parte passa in una pedaliera Boss ME 8, l'altra in diretta.
Commenti
Posta un commento