Intervista pubblicata su Chitarre nel 2010
Nato in Senegal da mamma spagnola e papà francese, parigino per elezione e poliglotta per vocazione, Bob Bonastre è un vero cittadino del mondo e un artista del senso più profondo del termine. Non capita spesso di incontrare persone così dentro la propria visione della musica, senza mediazioni e senza compromessi. Africa e Europa, ma anche America e Brasile si fondono in un vero ‘crogiuolo’ di ispirazioni e influenze nel suo approccio alla chitarra che, quasi per caso verrebbe da aggiungere, ha le corde in nylon. Il suo modo di utilizzare la voce come strumento autonomo, puramente melodico, integrata a percussioni sullo strumento, crea un’impronta sonora assolutamente originale e di forte impatto. Gentilissimo e molto disponibile, si è concesso volentieri quattro chiacchiere prima della sua esibizione di agosto, nel corso del festival Un Paese a Sei corde.
Anzitutto complimenti, parli un ottimo italiano.
Grazie, al limite ci pensi poi tu a correggere gli errori di grammatica. In effetti vengo spesso a suonare in Italia. Suono quasi più qui che in Francia. Per dirla tutta, ho avuto un figlio da una donna italiana e veniamo spesso nella zona di Torino per andare a trovare i nonni.
Vogliamo cominciare da ‘Grace’ il tuo nuovo disco, che sta per uscire?
Dovrebbe essere pronto per fine settembre, inizio ottobre. Come i due precedenti, è stato realizzato per l’Acoustic Records di Peter Finger. Abbiamo registrato il mese scorso, in Germania, e ho avuto la fortuna di lavorare con Sandor Szabo che, oltre a essere un buon amico, è un eccellente tecnico del suono. Ho scelto di seguire un progetto un po’ particolare: ci saranno brani di sola chitarra, chitarra e voce, ma in alcuni pezzi mi sono lasciato andare ad alcune sovraincisioni. L’idea era di creare atmosfere che mi permettessero di tornare un po’ di più verso sonorità jazzistiche, che mi dessero spazio per improvvisare sulla linea melodica. E’ stato un po’ come tornare indietro alle origini…
Se non sbaglio, tu nasci come chitarrista rock, però…
Ho cominciato a suonare attorno ai 14 anni con i classici dell’epoca, da Alvin Lee a Jimi Hendrix. Poi sono passatto attraverso un’intensa fase di studio e pratica jazzistica. Solo una decina di anni fa ho conosciuto Peter Finger, che mi ha proposto di fare un Cd acustico da solo. Ho accettato subito, è stata una bella sfida. Ero abituato a suonare con altri musicisti, in quartetto, trio, al limite in duo, ma certo non da solo. Ma le sfide mi hanno sempre stimolato molto e mi sono lanciato alla scoperta della chitarra acustica.
In ‘Grace’ come hai lavorato sulla composizione e l’arrangiamento dei vari brani?
Se ‘Existence’, il mio primo disco, era completamente strumentale, in ‘Nature Art’ - il successivo – ho cominciato a sperimentare anche l’uso della voce. E in quest’ultimo lavoro il canto gioca un ruolo fondamentale. Perché cantare mi piace davvero molto, è un modo di espressione che mi coinvolge a fondo. Ho studiato tanto, veramente tanto sulla chitarra ma mai canto. E la cosa strana è che la gente, dopo i concerti viene a parlarmi della mia voce... Ho la fortuna di avere un’estensione vocale di 3 ottave e ho capito che è davvero lo strumento principale per arrivare direttamente al cuore delle persone. E questo mi piace molto. Dopo tanti anni di jazz e sperimentazione, di musica ‘colta’ se mi passi il termine, questo mi riporta davvero a contatto con il pubblico.
Per questo in ‘Grace’ ho utilizzato molto la voce, ma a modo mio. Senza parole, non sono capace di scrivere i testi, come se si trattasse di uno strumento vero e prorpio. Una sorta di saxofono soprano che segue la melodia principale a volte all’unisono, a volte in controcanto o come seconda voce. Un altro punto fermo di questo lavoro è l’utilizzo delle percussioni, sentivo la necessità di inserirle. Ha giocato un ruolo fondamentale questa nuova chitarra che sto utilizzando. Ce l’ho solo da marzo. Ho avuto la fortuna di incontrare un liutaio straordinario, Maurice Dupont, che è diventato famoso per gli strumenti manuche che realizza. Ha costruito tutte le chitarre di Bireli Lagrene. Ha cominciato a sperimentare nel campo delle chitarre classiche e mi ha fatto provare 4 o 5 modelli che aveva già pronti. Con una piccola modifica al profilo del manico, per renderlo più sottile, questa che in origine era destinata proprio a Bireli, è arrivata nelle mie mani. Ed è semplicemente perfetta: ha bassi imponenti, medi definiti, cantini cristallini uniti a un feeling sulla tastiera che è quasi da chitarra elettrica.
Mi pare di capire, quindi, che la chitarra nuova abbia giocato un ruolo notevole nell’ispirarti nella composizione dei brani del disco.
Sì, è così. Mi si sono aperte una serie di possibilità espressive molto stimolanti, unite a quello che ti dicevo prima sul canto. Poi, come accennavo, ho sentito una forte spinta verso la chitarra solista vera e propria, dopo tanto suonare sfruttando la polifonia. Per cui in tre brani mi sono proprio lasciato andare. Ho usato anche una Lakewood, che ho trovato in sala d’incisione, per realizzare le ritmiche, principalmente in strumming. L’ultimo pezzo del disco, che si intitola ‘Music for Higway’, è un omaggio alla musica di Pat Metheny, che amo molto. Ci sono poi due arrangiamenti: ‘Pagliaccio’ di Egberto Gismonti e ‘3rd Stone from the Sun’ di Jimi Hendrix.
Utilizzi molte accordature alternative nei tuoi brani?
Sì, e hai utilizzato il termine corretto: utilizzo diverse accordature alternative, non utilizzo accordature aperte. Principalmente modifico l’intonazione dei bassi. Anzi, in effetti lo faccio molto spesso. Mi aiuta a perdere l’approccio schematico che, inevitabilmente, si finisce per avere sulla chitarra. In questo modo riesco ad uscire dai soliti box sulla tastiera. Sono sempre alla ricerca di stimoli nuovi, che mi facciano rompere la routine.
Sei ancora il direttore artistico del festival ‘Les Automnales’ di Ballainvilliers?
No, l’ho fatto per 4 anni, ma ora ho smesso. Sono cambiati il sindaco e tutta la giunta comunale e non vedevamo più le cose alla stessa maniera. Ma è probabile che l’anno prossimo faccia qualcosa di simile in un altro contesto. Perché mi piace moltissimo organizzare questi eventi. Sono un’occasione di incontro, di scambio e di aggregazione indredibili. Ho conosciuto moltissime persone in questi anni, con cui ho stretto legami professionali, ma anche di profonda e sincera amicizia. Mi piacerebbe anche aprire un’associazione, ‘La fratellanza delle corde’, in cui coinvolgere chitarristi di ogni parte del mondo, nella speranza che l’amore per la musica e per l’umanità possa ogni tanto fare la differenza.
Per chiudere, ci dai qualche dettaglio di questa fantastica Dupont di cui abbiamo parlato?
Ha la tavola in abete, fasce e fondo in palissandro. Pur avendo le corde in nylon, non si può definire esattamente una chitarra classica, piuttosto una crossover per le dimensioni del manico e della cassa, che ha la spalla mancante. E’ amplificata con un Fishmann Elipse Blend che passa in una D.I. della Baggs, la Venus, prima di entrare nell’impianto voci. Ma questo, di solito, costituisce solo il 30% del mio suono. Il resto lo faccio con un microfono di buona qualità piazzato davanti alla buca. Avere un buon fonico, come ho avuto la fortuna di incontrare per questa serata, ha la sua importanza.
Commenti
Posta un commento