CHIARA CIVELLO


 


Intervista pubblicata su Chitarre nel 2010

Nata a Roma, all’età di sedici anni Chiara Civello si è trasferita a Boston per frequentare con una borsa di studio il Berklee College of Music. Pochi anni dopo si è spostata a New York, che è subito diventata la sua città. In tutti i sensi. La collaborazione con il produttore Russ Titelman in poco tempo la proietta sulla scena live americana, portandola a collaborare con personaggi del calibro di Burt Bacharach e Ana Carolina. In Italia per la presentazione del nuovo disco, abbiamo avuto modo di incontrarla al termine di un set strepitoso nel corso della terza serata dell’AGM di Sarzana.

Cominciamo dalla fine? Parliamo un po’ dal nuovo disco?

E’ il mio terzo lavoro in studio. Mi piace molto dire che fare dei dischi è un po’ un modo di ritrovarsi. Il primo, ‘Last Quarter Moon’ (Verve 2005) è stato molto importante perché è stato il mio lancio, caratterizzato da una forte apertura all’esterno, una forte ricerca. Il secondo invece è stato più un momento di raccoglimento, con atmosfere crepuscolari e intime. Proprio durante la lavorazione di ‘The Space Between’ (Universal Classic and Jazz 2007) ho (ri)scoperto la chitarra, soprattutto come mezzo compositivo. In ‘7752’, l’ultimo, finalmente mi sembra di poter dire che mi sono ritrovata, e si sente in tutte le canzoni. La fase creativa è diventata un momento di gioia, quasi comunitaria, fuori dall’isolamento che forse la caratterizzava in precedenza.

Questo numero evocativo ha, immagino, una valenza particolare?

E’ la distanza, in linea d’aria, tra New York e Rio, le due città in cui il lavoro è stato realizzato. A New York ci vivo ormai da molti anni, ma a Rio ho fatto una serie di incontri molto importati, che mi hanno portato a imbastire una serie di collaborazioni fondamentali per la realizzazione del progetto.

Quanto sono presenti le atmosfere delle due città nei brani del disco?

Al contrario di quello che si potrebbe pensare, non ci sono ne salsa ne bossa nova nella mia musica. La valenza di Rio sta soprattutto nelle collaborazioni che sono nate in Brasile, con Antonio Villeroi, Ana Carolina e altri. Le sonorità, invece, sono tipicamente americane. Soprattutto la sezione ritmica è tipicamente newyorkese, molto marcata. Ci sono Gene Lake alla batteria e Jonathan Maron al basso che fondono diversi stili. Poi la melodia è italiana, l’armonia brasiliana, c’è un po’ soul, tipicamente a stelle e strisce. Ci sono alcuni brani del disco molto essenziali, quasi scarni. Riflette una tendenza della musica live molto tipica della metropoli americana.

Per mescolare tutte queste influenze come lavori in fase di composizione, prima, e per gli arrangiamenti, dopo?

Alla base di tutto ci deve essere una melodia da cui partire, poi piano piano sviluppo la gestione delle dinamiche e delle pause. Una attenta gestione di questi due elementi. I silenzi sono importanti quanto le note. Una volta individuata l’idea centrale, una cellula melodica che funziona, cerco di sviluppare il processo di conseguenza. Anche amministrandola nella sua importante ‘ripetitività’. Quando c’è una parte importante in un brano, va ripetuta in maniera adeguata. E’ una cosa che ho imparato da Burt Bacharach,, quando abbiamo lavorato assieme alla composizione di ‘Trouble’, che è poi stata pubblicata su ‘The Space Between’. A questo punto, proprio in funzione della lunghezza della melodia, scelgo che lingua usare per il testo. Anzi, la maggior parte delle volte è la melodia stessa che mi suggerisce la strada da seguire. Se si tratta di cose lunghe e articolate, la scelta cade quasi spontaneamente sull’italiano, che si presta meglio. Se invece c’è la necessità di uno stile più conciso e colloquiale, passo all’inglese.



Per quanto riguarda gli arrangiamenti, lavori da sola o collabori con qualcuno?

Generalmente faccio tutto io. Da quando ho preso confidenza con Logic, preparo praticamente tutta la pre produzione al computer, prima di sottoporla al produttore artistisco. A quel punto, poi, cominciamo il lavoro assieme. La cosa meravigliosa di questo ultimo lavoro è stata proprio che tutti i brani sono rimasti nel mio cuore e nella mia testa fino alla fine. Non c’è stato nessuno che è intervenuto per suggerirmi un cambio di tonalità o di tempo, come di solito può fare un produttore. Sono arrivata in studio con le idee chiare e a quel punto gli interventi sono stati mirati nell’individuare e valorizzare i punti importanti, ma senza stravolgere niente.

Hai fatto un accenno, prima, alla tua riscoperta della chitarra...

Sì, in effetti sono tornata alla chitarra da pochi anni. Ho studiato classica per dieci anni. Però poi alla fine mi sono seduta...

Al pianoforte? Ho visto che dal vivo lo utilizzi molto...

No [ridendo], mi sono seduta sul manico della chitarra, sulla macchina di mia madre, e l’ho spaccato. Non c’è stato verso di comprarne un’altra. Per cui ho ripiegato sul pianoforte. E’ stato solo nel 2005 che l’ho ripresa in mano, proprio per un bisogno, un’esigenza, di ampliare il mio campo espressivo. Soprattutto per quanto riguarda la composizione, si tratta di due strumenti completamente differenti. Due emisferi distinti. Che è ottimo, per altro, perché hai due universi separati da esplorare a disposizione, è una cosa enorme. C’è anche il discorso della portabilità dello strumento che ha la sua innegabile importanza.

E’ innegabile che tu abbia un approccio molto ‘chitarristico’ alla composizione.

Soprattutto nei brani eseguiti in fingerstyle. Capita molto spesso che il primo spunto per un brano arrivi da un arpeggio che mi piace. Di conseguenza, nel brano finito la parte di chitarra è sempre molto definita, con lo strumento in primo piano. Paradossalmente sto scoprendo solo ora il fascino dello strumming, al contrario di quello che capita di solito.

Certo, arrivando dalla chitarra classica, il fingerstyle ti era più congeniale. In questo contesto c’è qualche artista che ti ha particolarmente influenzato?

Sinceramente no. Anche perché non mi sento ‘chitarrista’ e non mi sento di essere una virtuosa. Mi piace usare gli strumenti come tali. Proprio nel senso etimologico del termine. Un aiuto, un mezzo per raggiungere uno scopo, funzionale alla composizione.

Ho assistito al tuo sound check per il concerto all’AGM di Sarzana. Molto lungo. Da cosa è dipeso?

Be’ palco nuovo, molto grande, piazza nuova. Poi in trio è essenziale avere degli ottimi ascolti anche sul palco. Volevo ottenere anche un buon volume fuori, in modo che la resa non fosse troppo scarna o troppo satura. Poi c’è una grande attenzione alle dinamiche del gruppo. Loro sono ‘incollati’ tra loro e sono super sensibili. Conoscono alla perfezione ogni sfumatura dei brani, con forze e fragilità intrinseche. Conoscono me, sanno se sto bene o meno, se è una serata difficile o se tutto sta andando per il verso giusto e riescono sempre a tenere uno standard altissimo. Ci gestiamo con flessibilità per mantenere a livello la performance.



E com’è stata la serata di Sarzana?

Un po’ anomala. Trentatre minuti sono davvero pochi. Stavo appena cominciando a scaldarmi che già dovevo scendere. Di solito propongo uno spettacolo di almeno un’ora e un quarto. Avere a disposizione meno della metà del tempo è stata una piccola violenza. Mi ha costretto a modificare quella che solito è la mia dinamica dal vivo: una sorta di curva che parte dall’introduzione, sale a picco, poi una lieve discesa, una risalita per arrivare ad un saluto, cordiale e caldo. Per motivi contingenti ho dovuto adattarmi, ma spero che ci sia l’occasione per proporre il concerto nella sua interezza.

Ho visto che utilizzi una chitarra molto particolare, ce ne vuoi parlare?

Devo dire che alla Martin sono stati gentilissimi. Mentre ero in studio per registrare, mi hanno messo a disposizione un’infinità di strumenti. Questo mi ha permesso davvero di trovare per ogni canzone la chitarra perfetta per il contesto. Molte di queste sono state suonate poi da Ana Carolina, che è una vera star del pop brasiliano, con cui ho scritto molte delle canzoni del disco. La chitarra che hai visto dal vivo, probabilmente, sono l’unica che la suona. E’ una serie limitata di 123 pezzi ormai fuori produzione, la mia è la n° 4. Mi sono innamorata subito del corpo piccolo e del sapore vagamente vintage. Monto di solito corde Silk and Steel, che hanno un suono più scuro, meno metallico delle tradizionali in bronzo. La cosa più bella è che si tratta di una chitarra eco sostenibile: il corpo è in Macice, un ciliegio brasiliano che è reperibile facilmente e viene ripiantato. La tavola armonica è Abete Sitka dell’Alaska che è stato fatto riposare per 100 anni sul fondo di un lago. Ha una sonorità caldissima, davvero unica.

Commenti