Intervista pubblicata su Chitarre nel 2008
Classe 1978, anche se non è elegante da dire per una signora, Gaëlle Solal inizia a suonare giovanissima e a quattordici anni è una piccola ‘étoile’ della chitarra classica in Francia. Animo inquieto e volitivo, brucia le tappe: a soli 19 anni si diploma con Alberto Ponce a Parigi, a 30 è già una apprezzata concertista a livello mondiale e docente di chitarra al Conservatorio di Sevilla, in Spagna. Tornata in Italia a Settembre per un concerto per la rassegna ‘Chitarra Femminile Singolare’, appendice di ‘Un Pese a Sei Corde’ interamente dedicata alle protagoniste della chitarra classica, abbiamo avuto occasione di far parlare un po’ di se questa affascinante signora delle sei corde.
Cominciamo ripercorrendo insieme la tua carriera musicale?
Ho inziato a studiare a Marsiglia, la città dove sono nata da madre francese e papà algerino. Ho avuto lo stesso insegnante per dieci anni, è stato una figura fondamentale per coltivare e far crescere l’amore per la musica. Poi mi sono trasferita a Parigi, per il Conservatorio di livello superiore. Ho studiato con Alberto Ponce, che è stato molto importante nel mio percorso di formazione. In seguito ho frequentato corsi di perfezionamento in Germania e Canada con Roberto Aussel e con Alvaro Pierri, che mi hanno dato veramente tanto. Ho poi seguito molte masterclass, con insegnanti diversi, proprio per aprire la mente il più possibile. Non mi piace fossilizzarmi troppo sulle stesse cose, ho bisogno continuamente di stimoli nuovi. Sono poi arrivate le vittorie al Concorso di Savona e, soprattutto, al Pittalunga di Alessandria, che mi ha aperto molte prospettive di lavoro, con contatti, ingaggi e una grande visibilità. Ho suonato molto in duo con Francisco Varnie, una collaborazione durata quasi dieci anni fa che ha avuto molto successo, ma che abbiamo interrotto negli ultimi tempi. Nel 2006 ho inciso il mio primo disco e ultimamente sono spesso in tournée, ho suonato negli Stati Uniti e Giappone e un po’ in tutto il mondo.
Mi piacerebbe approfondire un po’ il tuo rapporto con Alberto Ponce, immagino sia sta un’esperienza estremamente formativa…
L’ho visto per la prima volta che avevo appena compiuto dodici anni: ha tenuto una masterclass vicino a Marsiglia e il mio professore mi ha portato a seguire la lezione. Mi ha sorpreso molto, per l’approccio passionale, quasi viscerale che ha con la didattica. Le sue lezioni non hanno nulla di convenzionale. Alberto ‘è’ la musica, canta, urla, ti coinvolge completamente in quello che spiega. Un impatto molto forte, a quell’età. Quando poi sono andata a Parigi a studiare con lui avevo quasi 17 anni e, se non altro, sapevo cosa aspettarmi. La cosa più fenomenale è la sua capacità di entrare in sintonia con l’allievo, in modo da stimolarti veramente ad andare oltre, a tirare fuori tutto quello che hai dentro. Non ci sono imposizioni o forzature nel suo metodo, ma il processo a cui ti spinge può essere molto doloroso a livello inteteriore. Ma assolutamente in linea con la filosofia della maieutica applicata all’insegnamento. Ed è estremamente efficace. Ti cambia veramente la prospettiva delle cose la consapevolezza di avere dentro di te tutto quello che serve per andare avanti, basta solo riuscire a tirarlo fuori. Maturare la giusta consapevolezza dei propri mezzi è fondamentale per riuscire a progredire nel modo corretto.
Adesso che ti trovi dall’altra parte della cattedra a insegnare, quanto ti ha influenzato questa esperienza?
[Ridendo di gusto] All’inizio ero letteralmente terrorizzata all’idea di insegnare, gli studenti mi spaventavano molto…
Peggio che per i concorsi ?
Oh sì, molto di più. Sento una responsabilità fortissima a rivestire un ruolo del genere. Bisogna riuscire a trovare la giusta via per comunicare nel modo corretto con tutti, a ogni lievllo. Non è stato per niente facile, ci ho lavorato sopra per un po’ di tempo. Adesso sono sei anni che insegno e ho capito che ogni studente è un modo a se stante, in cui devo riuscire ad entrare. Ogni volta bisogna trovare la chiave giusta. Allo stesso tempo è proprio questo che mi entusiasma nell’insegnamento, la continua ricerca e l’impegno necessari per arrivare al risultato. L’esperienza con Ponce e Pierri in questo senso sono state fondamentali. Pierri in particolare è un’eterna anima in pena, ogni volta che ti fa affrontare uno spartito cambia continuamente il suo approccio e ti spinge a sperimentare in ogni direzione. Ti apre le porte della mente, ti rendi conto che non esiste un unico modo di fare una cosa nel modo corretto, ma esistono tantissimi, tutti validi. Sai come di dice: ‘hai compreso veramente un brano quando sei in grado di insegnarlo, di spiegarlo a qualcun altro. Altrimenti si tratta solo di lettura, per quanto approfondita ed evoluta’. Adesso ho capito davvero cosa signica questa frase.
Sei appena tornata da un tour in Montenegro, sei francese ma vivi in Spagna, parli correntemente cinque lingue. Ci vuole un po’ l’animo dello zingaro per affrontare questa professione?
Per via dell’impegno come docente, non posso più prendere tour lunghi, solo qualche fine settimana o programmo le tournée durante le vacanze. Però mi piace moltissimo viaggiare. Quando ero più giovane mi affascinava particolarmente l’idea di vedere posti nuovi, dove non ero mai stata. Ora, con il passare degli anni, la cosa che apprezzo di più è quello che, ogni volta, posso scoprire su me stessa. Ogni viaggio porta un cambiamento anche in quella che sono, è impossibile arrivare da qualche parte e non assorbirne, in qualche modo, i colori e i sapori. Ogni volta è il mio paessaggio interiore che si arricchisce e diventa sempre più ampio. Per fare il concertista, penso che questo sia fondamentale. Ho avuto molti studenti con talento eccezionale, ma che mal si adattavano a questa vita. Non ti deve solo piacere suonare, ci sono aerei, alberghi, spostamenti… tutto fa parte di questa vita. E a me piace tutto, nulla mi fa più felice che preparare la valigia prima di partire. Ogni volta è differente, ci sono situazioni come questa [Un Paese a Sei Corde sul Lago D’Orta] in cui gli organizzatori ti vengono a prendere, ti portano, si preoccupano di tutto loro e ti fanno sentire come se fossi a casa tua. Altre volte ti devi occupare in prima persona di tutti i dettagli, atterri e devi cercare pullman, albergo, ristorante per mangiare, non conosci la lingua, non sei in grado di ordinare o chiedere indicazioni. Si parla molto della solitudine dell’artista, che alla fine dello spettacolo si ritrova nella sua camera d’albergo. Ma, secondo me, è fondamentale saper gestire tutto questo. Fa parte della crescita umana e artistica. Non faccio questo lavoro per gli applausi, ma perché mi piace tutto dell’essere musicista.
Vogliamo parlare un po’ del tuo primo disco, uscito nel 2006 per una etichetta italiana, come hai scelto i brani da inserire sul disco?
Molto semplice: ho preso i brani che mi piacciono di più, quelli che mi vengono meglio! Non c’è una grossa ricerca dietro. Il programma dei concerti che faccio ora, come quello di questa sera, è molto più elaborato, c’è molta più varietà di stili. Con l’esperienza ho imparato la giusta formula da proporre durante i recital dal vivo. Quando ho inciso il disco non mi è era così chiara, come lo è adesso, e ho preferito andare sul sicuro. E’ venuto fuori una sorta di Best Of, se dovessi registrarlo ora sarebbe completamente diverso.
Anche l’aspetto della comunicazione con il pubblico, durante i concerti, mi pare che ti stia particolarmente a cuore…
Sì, è vero, anche se onestamente non c’è nulla di preparato a tavolino. Sono io la prima ad apprezzare in maniera diversa un brano, quando viene presentato in maniera adeguata durante un concerto. Quindi cerco sempre di dare qualche notizia su quello che sto per suonare, in modo che la gente possa entrarci ‘dentro’ con più facilità. La formula del recital ha bisogno di essere rinnovata e questo può essere anche un buon modo per rompere la barriera tra pubblico e musicista. Nel mondo della musica classica c’è un po’ di rigidità in merito. Ma, dato che io per prima mi annoio se vado a un concerto e non vengo coinvolta nel modo giusto, non voglio certo fare la stessa fine quando suono [ridendo].
Vorrei spendere due parole in più sul rapporto che ti lega al compositore Maurice Ohana e le sue composizioni
Amo particolarmente i suoi lavori. Al concorso di Alessadria sono stata la prima a suonare, in Italia, il suo ‘Concerto per Chitarra’. E’ una musicalità che trovo molto affine, ci sono elementi di flamenco accanto a sonorità tipiche dell’Africa del nord, di cui lui è originario. Non è difficile vedere quanto siamo vicini, anche culturalmente.
Nei brani Ohana si utilizzano diverse tecniche che sembrano mutute dalla chitarra acustica contemporanea (o viceversa), come percussioni con il pollice e armonici ottavati…
L’idea è appunto quella di rompere i canoni tradizionali della chitarra classica, uscire dal solito schema dell’arpeggio, molto legato ad un’idea ‘romantica’ dello strumento, per aprirsi verso le novità, le potenzialità che lo strumento può offrire.
Due parole sul tuo strumento?
E’ opera di un liutaio francese, Daniel Friedrich, in cedro e palissandro, la utilizzo in maniera continuativa dal 2001, per cui abbiamo raggiunto un ottimo livello di simbiosi. Sono molto soddisfatta dello strumento, anche perché ho dovuto aspettare quattro anni per averla. Anche se in fondo non è molto, Daniel ora ha una lista d’attesa di quattordici anni… praticamente ha chiuso la sua waiting list.
E, nel caso, bisogna anche augurargli buona salute…
[Ridendo] In effetti, anche se è uno dei pochi liutai che non chiedo anticipi. Infatti sono stata molto fortunata a dover aspettare così poco. I suoi sono strumenti unici, con un volume e una proiezione davvero particolari. Sono molto ricercati in ambito accademico proprio per questa capacità di proiettare il suono verso la sala. Ci sono molte chitarre ‘rumorose’ in giro, ma poche hanno questa definizione del suono. Sembra una sciocchezza, ma è essenziale farsi ascoltare quando si suona.
Ho visto che utilizzi l’Ergoplay, altra cosa non molto frequente in ambito classico.
In effetti è stato un cambiamento molto drastico. E solo tre anni fa ero assolutamente contraria all’utilizzo di questi supporti. E’ bruttissimo, dicevo, non si può suonare in quel modo. Poi ho provato… su indicazione di un caro amico, che è specializzato in ergonomia. Dopo un breve periodo di adattamento, ho trovato la mia posizione. Per un po’ l’ho vissuto in maniera un po’ schizzofrenica, nel senso che studiavo con l’Ergoplay e poi in concerto usavo l’impostazione tradizionale. Mi sono resa conto che non aveva senso andare aventi così e mi sono buttata anche dal vivo. In fondo non è poi così brutto [sorridendo]. E soprattutto è funzionale allo scopo, se non voglio trovarmi piegata in due prima dei quarant’anni.
In effetti, immagino passerai molte ore sullo strumento.
Dipende… non ti saprei dire di preciso. Quando sono in giro molto meno, certo. Dipende anche su cosa sto lavorando.
E in questo periodo su cosa stai lavorando ?
Anzitutto sto studiando altri pezzi di Ohana, per avere materiale per incidere un disco con le sue opere. Ha un nuovo concerto per chitarra e orchestra. Sto lavorando anche su pezzi di Ikemizu, un compositore giapponese. Da questo punto di vista sono abbastamza ‘bulimica’, non mi basta mai. Ho sempre voglia di brani nuovi, di nuovi stimoli. Ascolto continuamente cose che mi interessano e che sento la necessità di imparare. Tutti i pezzi che suono in concerto li amo alla follia. Il brano di Schubert che ho suonato all’inizio mi era piaciuto tantissimo per piano e voce. All’inizio non mi veniva così naturale, ci ho lavorato sopra per tantissimo tempo. Ce l’avevo sempre in testa, anche sotto la doccia, finché, alla fine, sono riuscita a farlo rendere come volevo.
Una domanda che ti avranno fatto mille volte, ma da cui non si può prescindere, l’essere donna in un ambiente ad alto tasso di testosterone come quello della chitarra: come lo vivi ?
Un grande problema [con una bella risata]. No, non è vero, anzi, è un bel vantaggio. In effetti in cartellone, nei vari festival o nei concorsi, spesso mi capita di essere l’unica donna. Anche se devo ammetere che ultimamente la situazione sta lentamente cambiando. C’è una nuova generazione di concertiste che sta emergendo, con grosse capacità. Ma a prescindere da questo, chi cura il programma di un festival si preoccupa della qualità della proposta, non se il musicista è uomo o donna. Per cui, alla fine, in questo modo ho una visibilità, un’esposizione mediatica decisamente superiore proprio per questo. Ma non durerà ancora per molto, ci sono ottime chitarriste in circolazione.
Personalmente ritengo che le donne chitarriste abbiano una sensibilità particolare, spesso superiore ai colleghi maschietti, oltre ad avere innegabilmente un miglior senso del ritmo…
Può essere, in effetti, ma non saprei dirti. Quello del ritmo è il grosso problema della chitarra ‘a solo’, cosa che vedo quotidianamente con i miei allievi. Ho letteralmente provato di tutto nelle mie classi: percussioni, ballo, e non so che altro. Ma ho paura che il problema vada affrontato prima, con un approccio di carattere pedagogico già nella scuola dell’obbligo.
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