WALTER LUPI


 

Intervista pubblicata su Rockerilla nel 2010 

Dalla chitarra acustica elaborata e contaminata con l’elettronica alla purezza del suono di ‘Zunié’ e ‘Sulle corde dell’anima’, Walter lupi ha compiuto un lungo percorso di maturazione. Che lo ha portato ai massimi livelli del fingerstyle italiano.

Di recente hai parlato spesso dei tuoi ultimi CD “Zumiè” e “Sulle Corde dell’Anima” (tributo a Lucio Battisti) come ad un ritorno alle origini del tuo primo disco d’esordio “Bhakta Priya”. Ci vuoi raccontare meglio cosa è successo in questo periodo di assenza dal mondo puramente acustico?

Si è vero, tra Bhakta Priya e Zumiè ci sono stati cinque dischi molto diversi tra loro. E’ stata come una spirale ascendente e discendente entro la quale ho effettuato un vero e proprio viaggio alla ricerca di qualcosa, forse solo nel tentativo di espandere al massimo lo strumento acustico per sviluppare al meglio la mia vena compositiva.

Ascoltando “Spirali” appunto, si avverte questo tentativo di andar oltre lo standard timbrico che offre la chitarra acustica tradizionale.

Infatti, per esempio un riferimento chiave nel mio percorso di sperimentazione è stato certamente Pat Metheny. Ho un’ammirazione davvero infinita per il suo lavoro. Ho anche arrangiato in finger style parecchi dei suoi brani, ci sarebbe materiale per un altro tributo, volendo.

All’inizio le mie sperimentazioni con il “sampler” e il “midi” erano essenzialmente finalizzate ad espandere i limiti strutturali della chitarra. Che come tutti gli strumenti acustici è timbricamente limitata. Ho suonato in questo modo per più di dieci anni. Un disco come ‘Spirali’ è nato proprio grazie a questa sperimentazione di nuovi suoni provenienti dagli “expander” di allora, pilotati via “midi”, e dalle combinazione di “loop” ritmici che mi permettevano di creare dei “groove” a sostegno di temi finalmente svincolati dal contrappunto classico. “Spirali” è il frutto di questo lavoro, e solo un Mauro Pagani, che ringrazio ancora oggi, poteva produrre un disco come questo. Ma prima di emulare Pat Metheny, quali sono stati i tuoi riferimenti cardini della sei corde? Sono stati prevalentemente tre: John Renbourn, che ho studiato a fondo veicolando il mio rapporto con la chitarra classica verso quella folk, attraverso aree rinascimentali ma non solo, fungendo quindi da apri pista a molti altri autori dopo di lui di quello che in seguito sarebbe diventato l’attuale fingerstyle. Alex De Grassi, che mi ha ispirato all’utilizzo della attuale accordatura aperta con cui ho composto la maggior parte dei miei dischi, e Michael Hedges, uno shock! Lui ha rotto ogni possibile regola precedente con il suo modo visionario di suonare introducendomi all’uso dell“utilizzo della “guitar percussion”. Più tardi Tommy Emmanuel che, come un missile a lunga gittata, ha lanciato la chitarra oltre il tradizionale “Picking” rendendo l’immagine della sei corde uno strumento al pari di una rock band. A lui devo lo stile orchestrale con cui suono la mia musica oggi, supportato anche da una tecnica che ho battezzato “Flat Finger”.



Tornando a Pat Metheny. Prima hai detto che hai trascritto per chitarra sola una serie di sue composizioni . Cosa ne è stato?

Si, una decina di brani. ma anche in questo caso come in quello di Lucio Battisti, per la pubblicazione ci sono stati problemi editoriali. Al termine di un suo concerto sono riuscito a parlargli direttamente e a chiedergli l’autorizzazione a pubblicare i suoi brani, e me l’ha concessa senza nessuna difficoltà, immediatamente. Poi, a contatto con la parte editoriale burocratica, ho sbattuto contro il solito muro di gomma. La casa editrice, che ne cura i diritti in Italia, in buona sostanza mi ha risposto che non erano interessati perché si trattava di brani troppo complessi per il mercato di allora, insomma, troppo difficili. E non mi hanno permesso di pubblicare con altri, per cui il progetto è finito nel cassetto assieme ad altri in attesa di momenti più favorevoli; chissà, magari ora con l’attuale stato di cose potrei riprovarci.

Tornando a “Spirali” e al tuo periodo di sperimentazione. Cosa ha comportato, per te che sei nato come chitarrista acustico solista, dedicarti a questa ricerca.

Da un lato grande soddisfazione nell’ottenere riconoscimenti da musicisti come Mauro Pagani. Dall’altro credo però ci sia stata una certa sofferenza della mia immagine… in altre parole ho disorientato il mio pubblico iniziale, non preoccupandomi di creare un’immagine professionale precisa, e di conseguenza una collocazione sul mercato. La mia principale preoccupazione è stata invece quella di seguire ciò che avevo in mente in quel momento. Così gradualmente la spirale si è richiusa e sono tornato a rivolgermi al mio pubblico iniziale anche perché, diciamolo, suonare con dei supporti tecnologici, per quanto affascinante, è comunque limitante. Quello che avevo creato con “Spirali” era una musica che conteneva tante sfaccettature e da un lato, quello puramente commerciale e di vendita, non ha trovato facile collocazione. Con il disco ‘Short’, prodotto da Peter Finger per Acoustic Music Records inizia il mio “rientro” alla base di partenza. Registrato con una miscela di microfono, piezo elettrico e suono midi, le composizioni portano ancora traccia di quel periodo in cui ero rapito dall’idea di superare limiti e confini, spinto da una visione immaginifica della musica.

Ma tra “Spirali” e “Shorts” ci sono stati altri dischi mi sembra.

Si, alla fine questa ricerca è confluita in un marchio “Music Experience”, che ora utilizzo per le mie produzioni discografiche, che appunto è espressione di due miei dischi rimasti un po’ in sordina. Per un chitarrista solista sono dischi veramente sperimentali di cui però vado abbastanza fiero. Entrambi con soluzione di continuità. Music Experience I e Music Experience II, legati molto all’ambiente, a madre natura e ai suoni contenuti in essa; fore un po’ new-age, ma certamente non di quella soporifera. Questi due dischi sono stati un’ulteriore sviluppo di un’idea della musica intesa più ad evocare ed ispirare che alla vendita del disco in un mercato tradizionale. Infatti hanno avuto una buona distribuzione in alcune farmacie di Milano. Poi ho concluso questa ‘spirale’ di sperimentazione tornando al suono della chitarra acustica più puro. Ho persino ripreso ad andare a lezione dal mio Maestro di chitarra classica, Lorenzo Natalini. Questo per risolvere alcuni problemi legati alla mano destra ormai viziata dall’uso di un suono multi timbrico. In ‘Zumiè’ sentivo la necessità di un ritorno alle origini, in cui, finalmente, tutte le sfumature, le dinamiche e i colori dello strumento venivano esclusivamente da me, e non dall’utilizzo di accessori esterni. Ti confesso però, che ogni tanto mi guardo in dietro e penso a quel periodo con un po’ di nostalgia. Mi consola che oggi, un musicista come Pat Metheny si stia cimentando anche lui con questa idea del “one man band”, in rapporto con delle “macchine del suono”; allora in fondo non era del tutto sbagliato avventurarmi in terreni inesplorati trascurando di coltivare una propria immagine legata alla sei corde. Ci sto provando oggi nella speranza che non sia troppo tardi.

E l’omaggio all’opera di Lucio Battisti, com’è nato?

Avevo già in repertorio alcuni arrangiamenti di suoi brani. Ho sempre amato le sue canzoni, sono parte del nostro DNA ormai. Poi, qualche anno fa, Franz Di Cioccio mi ha coinvolto nella preparazione di uno spettacolo che sarebbe stato presentato, poco dopo a Novara in cui ripercorreva attraverso le immagini di Guido Arari e la testimonianza di un noto giornalista musicale, Riccardo Bertoncelli, la prima parte della carriera di Lucio, nel periodo in cui hanno collaborato assieme. Io dovevo occuparmi degli interventi ‘musicali’ di stacco tra le varie parti. Per cui ho cominciato a lavorare su una serie di pezzi che mi ha espressamente richiesto Franz. Da inserire in questo contesto. Onestamente, alcuni non sono proprio quelli che avrei scelto io. Non mi sarebbe mai venuto in mente di arrangiare ‘Dieci ragazze’ o “Mi ritorni in mente”. Sono più legato alla sua produzione successiva, un po’ meno commerciale. Però alla fine sono stato molto soddisfatto dal risultato. E mi sono ritrovato per le mani materiale sufficiente per il disco, sarebbe stato un peccato che si fosse esaurito con quel progetto. Così è nato ‘Sulle corde dell’anima’.

Solo al termine dell’arrangiamento ho ascoltato gli originali per cogliere eventuali spunti significativi, ma ne ho evidenziati davvero pochi, così da lasciare l’arrangiamento il più spontaneo possibile. Inoltre, togliendo il testo, tutta l’attenzione si sposta sulla melodia. E sono temi che tutti conoscono alla perfezione, per cui vanno eseguiti con la giusta intenzione. Per raggiungere questo scopo ho sviluppato ulteriormente una nuova tecnica per la mano destra, che ho chiamato flat finger. Sfruttando l’unghia dell’indice anche con il dorso si possono eseguire dei sedicesimi che permettono di suonare al meglio tutte le inflessioni del labiale mantenendo la mano a ritmo, in “strumming”. Comprendi che questo da molta più spinta e pienezza ad una versione per chitarra sola. Ora questo approccio alla melodia è entrato a far parte del mio bagaglio tecnico, del mio linguaggio, e si ritrova in molte delle mie ultime composizioni.



Per quanto riguarda gli arrangiamenti, come hai lavorato? Da cosa parti?

Anzitutto presto molta attenzione all’accompagnamento, alla struttura armonica del brano per individuare il giusto “mood”, lavorando sui giri di basso e sulla melodia e soprattutto sul senso ritmico che deve fluire naturale per sostenere il contrappunto di basso e melodia. Naturalmente dipende anche dalla tipologia del brano, in “Mi ritorni in mente” è quasi obbligatorio agire in questo modo, il “groove” qua è forse la parte più importante del brano. Mentre in altri brani è la melodia ad essere più curata e tutto il resto deve restare da fondale alla lirica del tema.

 

 

 

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