ALEX DE GRASSI



Intervista pubblicata su Chitarre nel 2010

Nato in Giappone, ma cresciuto nella San Fransisco Bay Area in una familia di musicisti, Alex De Grassi, di fatto, è uno dei ‘padri’ della chitarra acustica moderna. Con Will Hackerman e la Windham Hill ha creato un genere musicale, la new age, che ha fortemente caratterizzato la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo. Anche se poi se ne è un po’ perso il senso originale in mezzo a tanto ‘spiritualismo’ spiccio. Un approccio allo strumento, il suo, con una voce della chitarra e uno stile nell’arrangiamento sicuramente unici e riconoscibili immediatamente. Lo abbiamo incontrato, molto rilassato e disponibile, allo stand Lowden dell’AGM di Sarzana. Mentre il buon George gli faceva un rapito set up alla sua signature model, ne abbiamo approfittato per una bella chiacchierata.

Ci parli un po’ di questo progetto particolare, il Demania Trio, che state portando in giro in questo periodo?

E’ cominciato tutto circa cinque anni fa. Io e Michael Manring ci incontravamo in continuazione nei vari festival cui eravamo invitati a suonare. Ovviamente ciascuno presentava il suo set a solo, ma durante i sound check è capitato di fare un paio di pezzi assieme. Ed è stato molto divertente. Ma ci siamo resi conto che ci voleva una sezione ritmica per completare il discorso. Michael aveva già suonato con Gerry Garcia a Los Angeles, in alcuni eventi...

Michael ha suonato con tutti, è semplicemente incredibile!

In effetti. La prima volta che sono andato a suonare a L.A. me lo ha presentato dopo lo spettacolo è c’è subito stata intesa. Poco dopo siamo partiti con le prove del trio. Abbiamo suonato molto nel circuito californiano e un paio d’anni dopo siamo finalmente entrati in studio per registrare il disco (Demania, Tropo Records 2006), che al momento è l’unico che abbiamo realizzato. Abbiamo continuato a suonare con regolarità per un paio d’anni. Negli ultimi tempi, invece, non abbiamo più avuto la possibilità di vederci così spesso. Adesso finalmente faremo un piccolo tour assieme.

E’ possibile definire un qualche modo la musica che fate?

Ho suonato da solo per la maggior parte della mia vita. Quindi, per me la sfida più grossa è suonare con altri musicisti. C’è sempre una piccola componente di improvvisazione nel mio modo di suonare, ma in questo contesto, molto jazzistico, godo di molta più libertà. E’ molto ‘liberatorio’, ma al tempo stesso molto impegnativo. Suonare con Michael è stimolante. Sicuramente non è un bassista nel senso convenzionale del termine. Sembra quasi di avere a fianco un altro chitarrista. Mi trovo spesso ad eseguire parti ritmiche mentre lui fa la melodia, anche se c’è molto interscambio, in questo senso.



Avete progetti per un disco nuovo?

Ne abbiamo parlato. Ma abbiamo ripreso a suonare insieme solo da pochi mesi. Appena avremo materiale a sufficienza, sicuramente registreremo un Cd nuovo. Anche se non abbiamo ancora fissato delle scadenze.

La Sympitar è stata realizzata apposta per il progetto con i Demania?

No, ce l’ho da quasi vent’anni, ormai. Anche se quando l’ho presa non sapevo realmente cosa farci. Bella, molto intrigante, però... E’ stata realizzata da Frank Carlson. E’ venuto a trovarmi a casa con il primo prototipo che ha costruito, che aveva solo sei corde di risonanza. Mi ha chiesto cosa ne pensassi e gli ho risposto che l’idea era interessante, ma a me sarebbe piaciuto avere due set distinti di corde ‘simpatiche’ e un meccanismo per poter selezionare quale usare a mio piacimento. Mi ha subito preso in parola! Ho composto qualche pezzo per il mio set ‘a solo’ con questo strumento, ma con i Demania mi sono reso conto che era il suo contesto ideale. Quando suono melodie a note singole riempie molto, mentre se eseguo linee più complesse è difficile da gestire. Sicuramente ha bisogno di un contesto particolare per essere sfruttata al meglio.

Come solista, che approccio hai alla composizione e all’arrangiamento?

E’ processo molto intuitivo. Mi piace giocare con le accordature, in modo da ottenere delle sonorità che mi stimolino. Devo dire che negli ultimi tempi, mentre sto affrontando l’impresa non semplice di trascrivere in partitura molti dei miei brani, mi sono reso conto che sarebbe necessario un approccio più formale. Di solito comunque, parto da un’idea di base e la sviluppo, magari con l’ausilio di un programma di scrittura su computer.

In questo contesto, pensi che la musica tradizionale americana abbia ancora molto da dare alla produzione contemporanea?

Sicuramente sì! Indipendentemente da cosa ascolti o ti piaccia suonare, la musica del passato può essere sempre una solida base culturale, oltre a una fonte infinita di ispirazione. Non bisogna mai dimenticare le proprie radici. Al tempo stesso, quando faccio un arrangiamento di un brano tradizionale mi piace giocare con il mood del pezzo, filtrarlo attraverso la mia sensibilità. Prendendomi magari delle libertà sulle varie sezioni che lo compongono, dilatandole o contraendole. Su ‘Now and Then: Folk Songs for the 21st Century’ (33rd Street Records), il mio ultimo disco, ho lavorato in questo modo. Ma l’interpretazione mi porta comunque ad assorbire qualcosa dal brano, che diventa poi parte del mio bagaglio personale, che viene fuori magari quando affronto la composizione di materiale originale.



Artisticamente, a che punto ti senti di essere arrivato?

Oh... bella domanda. Diciamo che in questo periodo ho molte opportunità. Recentemente la String Letter Publishing mi ha commissionato della musica per chitarra acustica, violino e un’orchestra di ventidue elementi. Sono partito dal brano sulla chitarra, per poi elaborare l’arrangiamento per orchestra con Geremy Choen, grande musicista. Non avendo una grossa esperienza in questo contesto, sono rimasto sorpreso dal risultato finale. Mi piace lavorare su brani per un ensamble così vasto, con la possibilità di sviluppare il discorso musicale al di là della durata canonica della ‘canzone’. Quando cominci a lavorare su un pezzo che può durare 15/20 minuti, anche mezz’ora, ti rendi conto che puoi davvero andare in profondità, sviluppare l’idea fino in fondo. Spero di avere altre opportunità in questo senso.

E adesso su cosa stai lavorando?

Sto preparando un lavoro da solo, cui sto lavorando da davvero molto tempo. Me la sto prendendo comoda. Voglio fare qualcosa che sento davvero, perché la voglio fare, non perché devo. Sarà un disco basato principalmente su brani originali, anche se penso che alla fine includerò anche un paio di arrangiamenti. Come ti dicevo prima, c’è anche in ballo il nuovo disco con i Demania. Poi mi piacerebbe fare qualcosa in duo, ma non con un altro chitarrista. Ho da parecchio tempo nel cassetto anche il sogno di scrivere musica per un’orchestra di chitarre, ma non è semplice. Al momento ho pronto un brano, ma avrei bisogno di altro materiale per concretizzare il progetto.

Ah, mi stavo dimenticando: il New York Guitar Festival, una manifestazione imponente, mi ha commissionato la colonna sonora per due film muti. Un’esperienza estremamente interessante che ha avuto un ottimo successo. Al punto che per l’anno prossimo ne faremo un’altra.

Ci racconti qualcosa sulle tue chitarre e sulla scelta particolare di usare solo il microfono per amplificarle?

E’ già da un po’ che ho scelto di non montare sistemi di amplificazione on board sulle mie chitarre e utilizzare solo un microfono AKG 460. Che mi fornisce davvero un’ottima resa. Quando suono da solo non è difficile da gestire. In trio, magari, si fa un po’ più fatica, ma non è impossibile. La chitarra che uso attualmente è una signature model, realizzata da George Lowden, con fasce e fondo in acero e tavola in abete europeo. Quando sono in America suono abbastanza spesso anche una Traugott R model, in abete tedesco e palissandro brasiliano, che è completamente differente, come è facile immaginare. Ho anche una baritona realizzata da McCollum, in paduk e abete italiano, che mi piace molto. Non ha un volume enorme, ma ha un sustain infinito. In effetti, possiedo molte chitarre, ma alla fine queste sono quelle utilizzo principalmente.

Giusto una curiosità: De Grassi è un cognome di origine italiana, vero?

Mio nonno, Antonio De Grassi era di Trieste. E’ immigrato negli States nel 1912. Per mia sfortuna, mio padre non ha imparato a parlare italiano, e quindi neanch’io. Per altro, io sono nato in Giappone, dove mio padre lavorava, e quindi ho avuto pochi contatti con la famiglia durante l’infanzia. E’ una lunga storia... ho imparato solo poche parole, ma in compenso parlo molto bene lo spagnolo. Ho ancora un cugino a Trieste, che ha più o meno la mia età. Sono andato a trovarlo proprio l’anno scorso.

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