Tuck Andress

Intervista pubblica su AXE nel 2005 Ci sono musicisti che sono in grado di mettere d’accordo tutti. Sono pochi, forse non più di un paio per secolo, ma quando capita di incontrarne uno, è impossibile non rendersene conto. Possiamo discutere all’infinito se è più importante avere un feeling alla SVR o velocità di Vai, ma quanto ci si trova al cospetto di un artista come Tuck Andress la retorica lascia il tempo che trova, siamo allo stato dell’arte. Già, perché il chitarrista americano, oltre che uno dei migliori musicisti del ‘900, è un artista nel senso più puro e vero del termine. Uno che vive e respira la sua arte e ne fa una regola di vita. E Patti Cathcart ne è il naturale complemento, per unità di intenti e talento musicale. Tuck Andress è nato in Oklahoma: “Ho preso delle lezioni di chitarra per pochi mesi con Tommy Crook. Mi ha aperto nuovi orizzonti in poco tempo, insegnandomi il suo modo di suonare canzoni. Ma è da solo che ho imparato di più, suonando con altri musicisti, imparando pezzi a partire da dischi, con tanto esercizio e sperimentazione. Presto la mia chitarra ed io siamo diventati inseparabili.” Dopo Tuck studia la chitarra classica presso la Stanford University. “Durante questo periodo ho studiato Wes Montgomery, George Benson, Jimi Hendrix e John McLaughlin's Mahavishnu Orchestra. Ascoltavo ogni album di jazz che mi capitava tra le mani, in particolari quelli di Miles Davis”. Patti Cathcart è nata a San Francisco e a sei anni sapeva già che sarebbe sempre stata una cantante: “Sin dall’inizio ho ascoltato tutti i generi musicali: Gospel, classical, jazz, soul, folk, blues, rock, country, e musiche di altre culture; di tutto. Il mio primo amore come cantante di jazz è stato, e sarà sempre, Ella Fitzgerald, ma anche Sarah Vaughn, Carmen McRae, Nina Simone e tantissimi altri mi hanno profondamente commossa, Joni Mitchell, Laura Nyro e cantanti di vari stili. A Love Surpreme di John Coltrane ha cambiato la mia vita. Stevie Wonder mi ha messa sulla via della scrittura di canzoni. L’album di Al Jarreau, "Live In Europe", è stato un momento chiave per me; quando l’ho sentito ho capito che aveva alzato il livello delle voci nel jazz e che dovevo ricominciare da capo. Mi ha spinta ad esplorare le possibilità di fare della bocca una percussione”. Tuck and Patti si sono incontrati nel 1978 in una band a San Francisco. “Ero già nella band, dice Tuck, e un giorno Patti venne per fare un’audizione. E’ entrata, ha detto ciao a tutti e ci siamo messi a suonare. Dopo solo pochi secondi ad ascoltarla cantare, ho capito che avevo trovato la mia anima gemella musicale.” Li abbiamo incontrati a Ivrea, in marzo, in occasione dell’Euro Jazz Festival. Bloccati in Umbria dall’abbondante nevicata della notte precedente, arrivano in teatro appena in tempo per fare il sound check, l’intervista è ovviamente rimandata a dopo l’esibizione. Ma solo poche battute scambiate con Tuck in questo frangente lasciano a bocca aperta per la semplicità e l’immediatezza, l’umanità del suo modo di porsi con gli altri.
Al termine di un’esibizione a dir poco strepitosa, di cui parleremo più avanti, finalmente abbiamo l’occasione di fare quattro chiacchiere nei camerini. Mentre accendiamo i registratori chiamano Tuck a recuperare la chitarra dal palco, devono chiudere il Teatro. Poco male, cominciamo con Patti, simpatica e disponibile quanto il marito. Per la cronaca, Andress è tornato poco dopo, con la sua L5 degli anni ’50 dentro un gig bag morbida a tracolla (!!!). Quando cominci a lavorare a una nuova canzone, quali sono le tue principale fonti di ispirazione? Per me il song writing è un processo molto simile alla conversazione, come se facessi una chiacchierata con un amico. Questo è il mio approccio, ed è una cosa che amo molto. Scrivo e canto delle cose che toccano il mio cuore. Perché, in fondo l’amore e i sentimenti sono la cosa più importante, di cui parlare. Del resto io scrivo e arrangio i brani per Tuck, che li deve suonare. E certo di trasmettergli il feeling del brano, le cose che sento e che vorrei che il brano comunicasse. Lui si trasforma in orchestra e traduce in musica le mie idee. Anche se ormai ci intendiamo alla perfezione e lasciamo anche spazio a un po’ di improvvisazione, nelle nostre esibizioni. Per l’arrangiamento delle cover funziona nello stesso modo? Sì, assolutamente. Devono essere brani che amo e che mi hanno colpito, in qualche modo. Quindi Gift To Love, il vostro nuovo disco, già dal titolo è perfettamente calato in questo spirito? Sì, il progetto, originariamente, era destinato solo al mercato giapponese. Lo abbiamo registrato là all’inizio dell’anno. Nel corso della tourneé abbiamo chiesto alla gente, durante gli spettacoli, di mandarci delle e-mail con le canzoni che volevano trovare all’interno del disco. Alla fine abbiamo fatto le somme e tirato le conclusioni, così è nato Gift To Love. Come mai un’altra versione di Time After Time? Come hai sentito stasera, ogni volta che la suoniamo è differente. E’ un brano molto bello e conosciuto che si presta bene per coinvolgere il pubblico. Se guardi il Dvd del concerto che abbiamo registrato in Olanda, è completamente diversa da quella che avevamo registrato in origine. In effetti l’improvvisazione e il coinvolgimento del pubblico ha acquistato, negli anni, sempre più importanza nei vostri spettacoli? Si, certo, è una cosa che amiamo molto fare. Le canzoni sono canzoni, ma alla fine dello show sono altre le cose che ti rimangono. Torna Tuck, con il suo gioiellino di chitarra appeso alla schiena e tocca subito a lui. Negli ultimi due album che avete registrato sembra di sentire una certa apertura verso le sonorità latine e sud americane, è vero? Mah, dipende più che altro dal feel della canzone. Non mi pare che sia stata una scelta volontaria, dettata dalla volontà di inserire elementi di quel genere nella nostra musica. E’ successo e basta, era il brano che lo richiedeva. Ma non si tratta di una nuova direzione che stiamo prendendo in modo conscio. In fondo, un tratto dominante del vostro modo di fare musica è sempre stato quello di mischiare vari generi. Come ci siete arrivati? Penso che dipenda dal fatto di avere ascoltato tanta musica. Di avere suonato tanta musica. Dall’essersi confrontati con standard di ogni genere. Bossa nova, swing, jazz e blues, ma anche country, pop e chissà cos’altro. Tutta questa esposizione sonora ha lasciato delle tracce indelebili nel nostro modo di comporre e arrangiare. Ma tu cosa preferisci? C’è un genere in cui ti riconosci maggiormente? No, è difficile dover scegliere. Preferisco continuare ad apprezzare semplicemente le cose belle, il resto non ha molta importanza.
Ma studi ancora? Si, ma sempre troppo poco, il tempo non è mai abbastanza per fare tutto. Cosa suggeriresti a chi, invece, vuole studiare il tuo particolare approccio al fingerstyle? A me ha aiuto molto il fatto di aver suonato per molti anni con il plettro, prima di passare al fingerstyle. E’ molto importante imparare a non essere troppo rigidi, nell’approccio alla musica. E’ necessario essere flessibili, aperti ad ogni tipo di influenza, per poter raccogliere il meglio di quello che si ascolta e si studia. Dopo aver suonato per tanto tempo rock e jazz con il plettro, quando ho deciso di cambiare stile avevo un bagaglio tecnico che mi ha dato dei vantaggi innegabili. Certo, non siamo tutti uguali, ogni persona può trovare il suo percorso. Deve essere maestro di se stesso, senza aver paura di sperimentare. E soprattutto fare tanto esercizio. Senza tanto, tanto studio non si va da nessuna parte. Ho visto che non hai unghie nella mano destra, come mai? No, non mi piace il suono che ottengo con le unghie lunghe, sulla chitarra elettrica. Non riesco a ottenere il mio suono, anche lavorando molto sull’equalizzazione, per cui ho deciso di lasciar perdere. Magari faccio un po’ più di fatica, ma ne vale la pena. Vista l’esplosione, in questo periodo, della nuova chitarra acustica, non hai la tentazione di provare qualcosa in quella direzione? No, assolutamente. Non mi piace suonare la chitarra acustica. Non ne possiedo neanche una, figurati. Visto che siamo in argomento, possiedi ancora la Mossrite con cui hai iniziato a suonare? No, purtroppo no, da una dozzina d’anni.
E come mai utilizzi due chitarre molto simili, una solo per registrare e l’altra per le esibizioni dal vivo? E’ una questione di sfumature, che ho imparato ad apprezzare nel tempo. E così, almeno, ne rischio solo una, sempre la stessa, negli spostamenti durante i tour. Viaggi sempre in compagnia anche di una piccola travel guitar vero? Che chitarra è? Una Osten Agit. Una curiosità, ho sentito dire grandi cose di tua nipote, che lo scorso anno studiava alla Barkley? Sì, è assolutamente vero. Suona davvero alla grande, anche se a scuola non andava tanto bene. Adesso sta registrando il suo primo disco. Tra i giovani, c’è qualche chitarrista che ti impressionato positivamente? Justine Lodge è davvero grande, e ci sono un paio di ragazzi in Giappone che stanno venendo fuori bene. Ma c’è davvero tanta gente in giro che suona alla grande, è un universo talmente vasto. Chiudiamo con un classico: qualche suggerimento per chi vuole fare il musicista da “grande”? Bisogna aver un buon rapporto con il music biz, ed essere molto realisti. Bisogna anche essere molto responsabili, essere in grado di organizzarsi. La pigrizia e la disattenzione non portano lontano. E’ ora di andare, come ci fanno gentilmente capire gli organizzatori. Mentre ci salutiamo Tuck mi lascia il suo biglietto da visita e Patti si raccomanda di andare piano in macchina, con questo tempaccio…

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