Paolo Bonfanti





 Intervista pubblicata su Chitarre nel 2006


Attorno alla metà degli anni ’80 dire “chitarra blues” in Italia e dire “Paolo Bonfanti” era quasi un sinonimo. Il musicista genovese ha attraversato indenne il decennio delle chitarre pirotecniche e del minimalismo grunge per ripresentarsi all’inizio del nuovo secolo in ottima forma e con parecchie cose ancora da dire. Dopo aver pubblicato un mini Cd con 5 brani, tutti cantati in italiano, ha vestito gli inediti panni del conferenziere per presentare una serie di incontri con un tema che gli sta particolarmente a cuore: il blues. Con la cadenza tipica della sua terra e una simpatia innata, Paolo ha guidato in questi incontri un pubblico numeroso e attento attraverso la storia e l’evoluzione di un genere musicale che sta alla base di quasi tutta la produzione contemporanea. Tra un incontro e l’altro, ne abbiamo approfittato per fare quattro chiacchiere.

Per una volta… cominciamo dalla fine: ci parli come è nata l’idea per questo ciclo di conferenze, e come è stato sviluppato il progetto?

In modo abbastanza casuale. Conosco da anni Adriana Guarnieri, la responsabile della biblioteca di Casale, e le ho portato una copia del mio ultimo disco in regalo. E l’idea è partita da lei, di presentare questi tre incontri più, eventualmente, un ciclo di concerti, tutti dedicati alla storia del blues. Un’idea che si concretizzata molto rapidamente, ha preso forma e corpo molto in fretta ed è partita subito.

Quindi siamo solo all’antipasto?

Dopo i tre appuntamenti che conduco io, ci saranno diversi ospiti che approfondiranno i temi toccati durante le mie serate. Magari con dei veri e propri concerti.



Vuoi darci un’idea di massima di quali sono gli argomenti trattati?

La divisione in tre parti non è casuale, cercherò di approfondire le tappe fondamentali della storia del blues: la nascita dei canti di campagna, la fine della schiavitù e quindi il passaggio alla vita di città, quindi il blues elettrico, ed infine l’eredità e le contaminazioni del genere fino ai giorni nostri. Quindi non solo blues, ma rock’n’roll, soul, rithm’n’blues e via discorrendo. Farò sentire tanti brani, presi dai vari album che hanno fatto storia, ma suonerò anche diversi esempi dal vivo. Illustrerò un po’ di tecnica insomma, attraversi gli stilemi del genere.

Toglimi una curiosità: come mai questa scelta di andare a vivere in un piccolo centro di provincia?

Mah, è molto semplice, ho una compagna che ci vive e io sono diversi anni che faccio avanti e indietro. Adesso, da inizio dell’anno, sono residente ufficialmente.

Ma non pericoloso, per una carriera artistica, allontanarsi troppo dalle grandi città?

Può essere vero, ma non nel blues. Nel nostro genere esiste un circuito piccolo, ma ben definito. E poi un po’ sono anch’io, che di base sono pigro, ho la testa dura e non voglio piegarmi a certe logiche di mercato. Faccio quello che mi piace e basta. Si tratta di pesare le cose sul piatto di una bilancia e decidere di conseguenza.



Beh, non è poco…

Per fortuna, fino ad ora non ho avuto grossi problemi. Probabilmente se avessi accettato qualche compromesso avrei guadagnato di più, però mi sarei sicuramente divertito di meno. E questo per me è la cosa più importante. E facendo in questo modo, posso tranquillamente tenermi lontano dalle metropoli. Anzi, paradossalmente, la situazione nel giro dei locali è migliore in provincia.

Seguo con interesse la tua carriera sin dai tempi della Treves Blues Band e per diversi anni sei stato sicuramente uno dei migliori chitarristi italiani. Però, curiosamente, hai suscitato poco interesse, anche tra gli addetti ai lavori. Come mai?

E’ una questione di testa, c’è poco da fare. Sono uno a cui dell’immagine non ne è mai fregato niente. Probabilmente avrei dovuto curare di più certe cose. Quando parlo di immagine non intendo il look, ovviamente, ma forse avrei dovuto dedicare più attenzione alla promozione e non l’ho mai fatto. All’alba dei 45 anni forse è un po’ tardi per cominciare.

Sai, ho un forte senso della misura, un’autocritica molto presente, e ho sempre pensato di aver fatto bene quello che faccio. E che questo potesse bastare per suscitare interesse. Del resto ho avuto riscontri positivi da molti colleghi musicisti, che mi hanno aiutato a comprendere che, per certi versi, ero sulla strada giusta.

Paradossalmente, hai avuto più riscontri oltreoceano.

Sicuramente. Ho fatto tre concerti con Popper e i Blues Traveler, da cui poi hanno ricavato un disco e sulle note di copertina John ci ha scritto “Paolo Bonfanti you can play”. Ci siamo frequentati per una settimana, poi abbiamo registrato e se lui pensa che so suonare, beh, probabilmente gli darò retta. Mi fido di John Popper. Roy Rogers tutte le volte che arriva in Europa mi chiama per farmi suonare con la sua band… in fin dei conti, se non mi hanno notato è un problema loro. Mi spiace di non essermi fatto capire, ma forse bisognerebbe anche saper andare oltre l’esteriorità delle cose e scendere un po’ più nei contenuti. Alla fine torniamo al discorso iniziale, probabilmente è necessario fare più divulgazione di base su certi argomenti, per migliorare la comprensione.

Mi fa comunque piacere vedere che fai questi discorsi con il sorriso sulle labbra.

E’ inutile piangersi addosso. Conosco ottimi musicisti, con alle spalle collaborazioni importanti, che continuano a lamentarsi di quanto sono incompresi. E poi finiscono a fare zumpappà nell’orchestra di turno. Sicuramente fossero nati in America avrebbero avuto altre possibilità, avrebbero avuto il loro spazio per realizzarsi. In Italia la situazione è differente.

Cioè?

Mah, ultimamente è scoppiata questa mania del recupero della canzone italiana, che una cosa ottima. Però, per contro, anche se il testo fa pena e la musica peggio, se è cantata in italiano e si rifà a certi canoni, è automaticamente ottima, va tutto bene. Mi sta bene che non si debbano subire i generi musicali americani, come il blues, passivamente. E’ giusto che se ne dia un’interpretazione mediata attraverso le proprie radici culturali. Del resto, gli inglesi sono stati maestri in questo, proprio con il blues. Ma guarda cosa è successo a quella trasmissione televisiva, Taratatà. E’ nata sul modello di un programma francese, che proponeva jam session di musicisti di diverse estrazioni. Da noi ha tenuto bene qualche puntata, poi hanno cominciato a comparire le solite facce… come i discografici hanno allungato le mani, sono comparsi i soliti noti.

Rimane comunque il fatto che in Italia non si riesce a creare un mercato discografico “medio”, che non sia underground, ma neanche nelle mani della major…

Esatto. Non c’è una via di mezzo. Non riusciamo a creare un circuito che dia da vivere a tutti quegli artisti che non sono delle superstar.

Non che nel resto dell’Europa stiano poi molto meglio, tolto forse il circuito della musica acustica, vero?

Guarda, ne parlavo proprio con Beppe Gambetta, che un mio grande amico e maestro. Si fa sempre più fatica a suonare in Italia. Anche perché un professionista chiede dei cachet adeguati e capita sempre più spesso di sentirsi rispondere picche. Siamo anche in un momento economico delicato, in cui di soldi in giro ce ne sono sempre meno. C’è una crisi generale che non aiuta, assolutamente.

E quindi, adesso, verso cosa stai andando?

Ho appena fatto uscire questo mini Cd, con cinque brani, che avevo scritto e arrangiato per un gruppo di amici, La Rosa Tatuata. Hanno preparato uscire un bel disco rock, con testi in italiano e avevo preparato per loro una serie di brani. Ne hanno scelti alcuni e quelli “avanzati” mi sono fatto convincere da un altro gruppo di matti, gli Yo Yo Mundi, a pubblicarli per la loro etichetta discografica, la Sciopero Records, che tra parentesi è distribuita Sony. Sul disco ci sono due pezzi in genovese e tre in italiano, che sono abbastanza esemplificativi della direzione che sta prendendo la mia musica.



Poi è nata questa band, gli Slowfeet, con cui suonerò il 18 febbraio al Municipale di Casale, per festeggiare il compleanno di Fabrizio De’ Andrè. E non è una scelta casuale, perché le persone con cui mi esibirò, Franz di Cioccio, Mauro Pagani, Vittorio De Scalzi e Reinhold Kohl, hanno deciso di mettere su questa band e di coinvolgermi attraverso un giro di coincidenze e di coincidenze che non sto a raccontarti, per un impegno di beneficenza a favore dei bambini di Chernobyll. Ma è una band che è nata così, per cause benefiche, ma che si sta rivelando davvero vincente. Abbiamo fatto una serie di date in alcuni locali e il riscontro è davvero ottimo.

Mi pare che stai lavorando parecchio anche come produttore, in sala d’incisione?

Si, l’ultima cosa che ho seguito è stato il disco di Fabio Treves, con un bel po’ di ospiti importanti. John Popper, Roy Rogers, Chuck Leavell che suonano un tuo pezzo è una soddisfazione… Poi sono pronto per il prossimo disco de La Rosa Tatuata, che mi ha già prenotato per quando entreranno in sala. Si tratta di far quadrare i tempi. E anche con gli Slowfeet, entro l’anno, dovrebbe uscire un Cd.

Hai un curriculum di collaborazioni invidiabile. Come ti trovi in questo ruolo?

Bene, benissimo. Mi piace variare, avere nuovi stimoli. Confrontarmi con situazioni sempre nuove e differenti.

Bisogna avere comunque delle doti caratteriali notevoli, in particolare quando si ha a che fare con ego un po’ troppo ingombranti.

Ho avuto sempre fortuna, probabilmente. Nessun problema… Anche in questo momento, con Franz o Mauro che ne avrebbero, se volessero, da atteggiarsi. Inoltre, sono io il primo a non cacciarmi in situazioni dove capisco che potrei scontrarmi con qualcuno. Mi è successo in passato, e magari ho stretto i denti perché avevo un’altra età. Adesso non ci riuscirei più.

So che sei molto attivo a livello didattico, ma essere un buon musicista non vuol dire essere per forza un buon insegnante?

Mah, all’inizio, sinceramente, non so se ero davvero un buon insegnante, ma si impara. Adesso allievi ne ho parecchi, qualcuno suona anche in giro in maniera più che soddisfacente, quindi probabilmente ho imparato bene. Devo dire che è una dimensione che mi piace molto, mi ci riconosco parecchio. Pensa che ultimamente ho fatto anche una lezione di tre ore al Conservatorio di Cagliari. Mi hanno “istituzionalizzato”. Anche se non ho una formazione specifica in campo didattico, è materia che affrontato durante il corso di laurea al Dams. E poi ho avuto la fortuna di studiare con due grandi maestri, che oltre a essere ottimi musicisti sono dei veri divulgatori: Beppe Gambetta e Armando Corsi, che mi hanno aiutato a completare la mia formazione.

Un’altra cosa importante da sottolineare è che da me vengono dei musicisti che si vogliono perfezionare, persone adulte con le idee chiare su quello che vogliono. Non prendo bambini da avviare allo strumento, non ne ho le competenze. Anche in questo caso, è fondamentale una buona dose di autocritica, per rendersi davvero conto dei propri mezzi e, soprattutto, dei propri limiti.

I consigli che non ti stanchi mai di ripetere ai tuoi allievi?

Soprattutto che ci deve essere una fase, della propria crescita artistica, in cui si cerca di copiare tutto il possibile dai “grandi”, però poi bisogna, inevitabilmente, cercare un proprio stile, una propria via nella musica. E’ la cosa più importante. Ci sono musicisti che hanno trovato una propria voce sullo strumento e li individui sin dalla prima nota. E’ a quello che bisogna aspirare. Un altro mio classico è: va bene lo studio della tecnica, ma se ti viene da scrivere Yesterday o Penny Lane è anche meglio. La musica, la melodia sono la cosa più importante, bisogna saper comunicare delle emozioni.

Anche se adesso siamo in un periodo in cui tutti vanno un po’ di corsa, non ti pare?

C’è sempre stata questa mania della velocità, va e viene, ma è sempre presente. E’ una componente che può divertire, può fare parte dello spettacolo. Molto dipende anche dal genere che si propone. Ma è importante che la tecnica non sia predominante rispetto alla musica.

Hai sentito qualcosa di nuovo e di interessante, di recente?

Ci sono alcuni chitarristi niente male in giro, in questo momento. Non sono proprio dei ragazzini, ma hanno cominciato ad emergere solo ora. Mi viene in mente Kelly Joe Phelps, una personalità blues molto interessante. E se, da un lato trovo molto interessanti dischi come l’ultimo della Joe Spencer Blues Explosion che, in qualche modo, rompono gli schemi classici del blues e cercano nuove direzioni, se esce l’ultimo dei Los Lobos non me lo faccio mancare. Un altro chitarrista molto interessante è Cris Whitley, da sempre un po’ ai margini, ma che ha appena fatto uscire un lavoro strabiliante. E’ uno che ha avuto il coraggio di rompere tutti gli schemi tradizionali e affrontare cose nuove. Ho letto recensioni invereconde sui suoi lavori, poi ho preso il coraggio a quattro mani ne ho preso uno: fantastico. Adesso li ho tutti. E’ un artista che passa con disinvoltura da suoni grunge e rumoristi, con accordature alternative, a rarefatte atmosfere acustiche. Nell’ultimo disco, With, ha preso tutti i suoi classici e li ha riarrangiati chitarra acustica e voce, davvero bellissimo.

Tra gli italiani, nessuno?

I lavori de La Rosa Tatuata mi stanno piacendo molto. Testi intelligenti, ben scritti, brani coinvolgenti…

Gli artisti di cui curi la produzione non valgono…

Allora, possiamo parlare di Cristina Donà, di cui ho sentito un paio di canzoni niente male. Non posso, poi, che parlare bene de “L’Impazienza” degli Yo Yo Mundi, un disco che ho amato alla follia, anche se è un po’ lontano dalle loro produzione abituale. Anche se onestamente non seguo molto la scena italiana.

Sei anche tu un musicista che ascolta poca musica di altri per evitare di farsi influenzare?

No, no, assolutamente. Ascolto tantissima musica. Le influenze arrivano comunque da tutte le parti. E nessuno è figlio di nessuno, abbiamo radici culturali che non si possono comunque ignorare.

Com’è composto attualmente il tuo set-up?

I due strumenti principali sono delle telecaster, almeno di base. Una è una Japan del ’86, surnburnst, che ho letteralmente massacrato. Il ponte ha le sellette in graphtech, pick up Seymour Duncan con circuitazione modificata. L’altra è una copia realizzata dai due liutai della Dino’s Guitar, Alessio e Andrea, che me l’hanno praticamente regalata. Anche in questo caso ponte in graphtech, i pick up prima erano due Rio Grande, adesso glieli ho già cambiati con un T. T. Jones e un Harmonic Design. Obbiettivamente ha solo l’aspetto di una telecaster, il suono è tutta un’altra cosa. Per l’amplificazione mi affido principalmente ad una testata Fender del ’66, collegata ad una cassa sempre Dino’s con due coni Eminence. Ho alcuni pedalini della Danelectro e sto provando due prodotti di quello che secondo me è un altro geniaccio dell’elettronica Giuliano “Ianez”: il Pure che una sorta di booster naturale, che spinge il suono senza dare i problemi del compressore, e una sorta di scatola magica che si chiama proprio Jim in the Box. Ovviamente si intende Jim Marshall, lo attacchi a un fustino di detersivo e lo fa suonare come un Plexi tirato a palla, spettacolare. Non so bene cosa ci sia dentro, ma è incredibile. Per le acustiche ho due copie della Martin D28, una costruita da Antonello Saccu, a cui è stato rifatto il manico da Silvio Ferretti, che è il banjoista dei Red Wine. Sarebbe anche un pediatra a tempo perso, ma è un liutaio eccezionale e mi ha costruito l’altra acustica. Entrambe suonano molto Martin, ma hanno specifiche che si adattano alle mie mani, non troppo grandi, e manici stile Taylor, con una action quasi da chitarra elettrica. Mi stavo dimenticanto la Danelectro Uu52, che uso per lo slide, una National e una 12 corde della Epiphone acustica che ho amplificato con un B-Band, spendendo più di quello che vale la chitarra, ma suona alla grande.

Certo che per i mancini non è una passeggiata trovare le chitarre giuste, e infatti non è un caso se hai quasi solo strumenti di liuteria?

E’ un dramma, altroché. Quando ho cominciato a suonare, negli anni ’80, era quasi impossibile trovare chitarre mancine. E adesso va un po’ meglio, ma neanche poi tanto. Ho trovato solo un negozio spettacolare a Houston, che vende solo chitarre per mancini, se la vuoi normale costa di più. Ma è un po’ scomodo…

Vintagista o modernista? Fenderista lo sei sicuramente…

Ne uno ne l’altro, l’importante è che suoni bene. Effettivamente sono abbastanza fenderista, anche se ultimamente mi sono concesso una Gibson ES125 del 1953, almeno una dovevo averla. E ho fatto anche un buon affare. Però devo ammettere che i prezzi del vintage sono una follia, sono tutti impazziti. Anche se ci sono dei pezzi che suonano in maniera inimitabile, pagare una chitarra come una casa, per me, è immorale.

In breve, un consiglio per chi da grande vuole fare il musicista di professione?

Adesso, se uno vuole fare solo il musicista bisogna che si armi di pazienza e ci provi. Anche se il momento non è particolarmente felice. Certo, conviene prendere un diplomino, tipo Lizard o Cpm, e cercare di entrare nel mercato dei session man. E’ un giro un abbastanza chiuso, ma ce la si può ancora fare. Fermo restando che bisogna avere una personalità musicale ben precisa e definita. E se uno se la sente, è giusto che ci provi.


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