Intervista pubblicata su Chitarre nel 2009
Settant’anni, ma non si direbbe, Dan Crary sembra proprio
aver trovato nella passione per la musica e l’amore per chitarra il suo elisir
di eterna giovinezza. Dopo una lunga assenza dai palchi del nostro paese, ad
agosto – anzi a ferragosto per essere precisi - ha fatto una unica data
italiana a Nonio, sul Lago d’Orta, nel corso della manifestazione Un Paese a
Sei corde, in compagnia di Beppe Gambetta cui lo lega una profonda amicizia e
una collaborazione di lunga data. Difficile condensare in poche righe un
argomento che meriterebbe ben più ampia trattazione: Dan Crary è uno dei padri
della musica tradizionale americana, un vero innovatore sullo strumento, una
mente sempre aperta alle novità, costantemente spinto da una curiosità
insaziabile e dalla passione per la sua arte. L’infinita discografia di cui è
stato protagonista parla da sola, per quantità e qualità di lavoro svolto in
quasi 50 anni di carriera. Il Dvd ‘Primal Twang, the legacy of the guitar’, il
suo ultimo lavoro, è una geniale narrazione della storia della chitarra, dal
twang primordiale fino ai giorni nostri, raccontata per immagini e soprattutto
suoni, con toni leggeri e coinvolgenti. Un progetto di cui è molto orgoglioso e
di cui parla volentieri.
Anzitutto, bentornato Dan, è un po’ che non venivi a trovarci!
Oh, grazie. Ma sono venuto spesso nel vostro paese. La
prima volta, se non ricordo male, è stato nel 1981, e da allora ci sono tornato
almeno una decina di volte. E’ sempre un piacere. L’ultima volta è stato per il
concerto a Genova, l’Acoustic Night di Beppe [Gambetta, naturalmente nda],
quindi cinque anni fa.
Il workshop residenziale che avete appena tenuto tu e Beppe in Slovenia
come è andato?
Molto bene, è stato davvero interessante. Ho trovato
un bel gruppo di studenti, molto vario, differente da quelli che mi capita di
avere a casa. La particolarità, però, non era la nazionalità, come è facile
supporre. Nei corsi che tengo in America la maggior parte dei partecipanti
suona ed è appassionata di bluegrass. In questo caso, invece, ho trovato sì dei
flatpickers, ma che suonavano ogni possibile e immaginabile genere di musica.
E’ stato divertente e molto stimolante.
Vogliamo parlare un po’ del tuo ultimo lavoro, ‘Primal
Twang, the legacy of the guitar’? Immagino che la realizzazione del Dvd sia
stato un impegno imponente…
Sì, anche se in realtà era partito tutto come un
piccolo progetto, con la partecipazione di qualche amico. Doveva essere poco
più di un One Man Show. Ma il mio partner in questo progetto, il regista del
film Anthony Adams, mi ha suggerito di provare ad ambientare lo spettacolo in
un grande teatro e invitare qualche ospite in più. Da quel momento è partita
una vera e propria ‘escalation’ che ha portato lo show a diventare enorme.
Tutti i chitarristi a cui chiedevo di partecipare, grandissimi artisti,
rispondevano immediatamente di sì e, naturalmente, tutto questo ha aumentato
esponenzialmente il nostro impegno. Ci sono voluti quasi sette mesi per coordinare
il tutto, è stata davvero una grande sfida. Ad un certo punto la casa
discografica con cui stavamo lavorando ha pensato bene di lasciarci al nostro
destino. E’ subentrata poi la JBO, che ci ha dato supporto, ma la ‘gestazione’
dello spettacolo è stata davvero complessa. Ad esempio avevamo sul palco
qualcosa come 90 canali differenti e abbiamo dovuto far arrivare apposta
dall’Inghilterra un banco digitale che fosse in grado di reggere un carico del
genere. Abbiamo perso molto tempo per risolvere problemi di questo tipo. Come
vedrai, nel film, oltre alle varie performance c’è anche la parte della
narrazione e ho dovuto occuparmi di tutte queste cose assieme. E’ stata davvero
una grande sfida, ma fantastica. Una cosa da osservare con attenzione è il
pubblico: c’è gente che è venuta per sentire il rock’n’roll di Eric Johnson e
chi è venuto solo per Doc Watson. Ma quando le camere fanno una carrellata sul
pubblico tutti applaudono tutti. Alla fine del concerto c’è stata una standing
ovation infinita. Ho veramente perso il conto di quante volte siamo tornati sul
palco per ringraziare. Ma alla fine era proprio questo il tema dello
spettacolo, come la chitarra sia un veicolo che unisce le persone, al di là di
ogni possibile differenza, geografica, politica o più semplicemente di gusti
musicali. E’ proprio questo che la rende unica.
Alla fine, quanto tempo ti ha preso la realizzazione del film?
Tre anni, forse qualcosa di più, tra le riprese e
tutto il lavoro di editing. Adesso è il marketing che sta creando problemi. Del
resto non è prodotto facile da piazzare. C’è la possibilità che possa passare
sulla televisione pubblica, magari diviso in due o tre puntate, siamo in
trattativa. Lo sapevo che era troppo lungo [risate].
A questo punto nel camerino è arrivato Beppe Gambetta, che ha deciso di farci compagnia per qualche minuto. Sta diventando una piacevole abitudine avere il suo supporto durante interviste a personaggi di questo calibro.
In qualche
modo Primal Twang è collegato al tuo ultimo disco, Renaissance of the Steel String
Guitar? Quale era il progetto di base di questo disco?
Il concept principale del Cd era... non avere un
concept. L’idea di base era unicamente suonare qualsiasi tipo di musica mi
passasse per la testa. Country, blues, bluegrass ma anche arie classiche prese
da Puccini e qualsiasi altra cosa mi venisse in mente. La cosa importante era
celebrare l’importanza della chitarra, celebrare il suo ruolo centrale nella
musica in ogni parte del mondo. Portare alla gente, al pubblico, tutto questo.
E ora su cosa stai lavorando?
Su un progetto molto vicino a quello di Jammed If I Do
[Registrato nel 1994, il disco raccoglie jam session con Doc Watson, Norman
Blake e Beppe Gambetta nda]. Sarà basato su brani presi dalla tradizione
bluegrass, con la partecipazione di artisti come Beppe e altri. Ci sarà
sicuramente anche Tony Mc Manus. Se hai presente il disco, sarà qualcosa di
molto simile.
Scusami se ti interrompo ma, visto che hai nominato Beppe e Tony, c’è
qualcosa in vista anche con i Man Of Steel?
[Attimo di silenzio, in cui Beppe e Dan si guardano]
Gambetta. Viviamo così distanti,
ognuno di noi è sempre impegnato nei propri progetti, che spesso sono
tutt’altro che semplici. E’ davvero complicato...
Crary. Abbiamo parlato spesso di
fare un altro tour assieme, ma è difficile trovare la giusta quadratura per
metterci tutti assieme sullo stesso palco, contemporaneamente. Ma il discorso è
rimasto aperto.
Parlavamo dei tuoi progetti futuri...
Giusto. C’è questo mio amico, Billi Millet, che
lavora in South Texas, ed è molto dentro la tex mex music. Conosce tutti i
musicisti più importanti del genere, Flaco Jimenez, Augie Meyers, i Texas
Tornados oltre a tanti giovani talenti che stanno venendo fuori. Ed è
assolutamente convinto che ai ‘latinos’ piacerà da morire la musica bluegrass.
Per cui ha messo in piedi un progetto, a cui prenderò parte tra un paio di
settimane, per mettere sullo stesso palco alcuni di questi musicisti con me e
altri esponenti del movimento bluegrass per un tentativo di ‘fusione’ tra i due
generi musicali. L’evento sarà ripreso dalla televisione pubblica di San
Antonio. E, probabilmente, sarà registrato anche un disco live della session.
Molto interessante!
Davvero. Abbiamo ovviamente già fatto alcune prove e
il risultato è entusiasmante. La cosa più curiosa è stata scoprire che il vero
protagonista sarà il banjo. Questi ragazzi non lo utilizzano nella loro musica,
ma quando hanno sentito John Hickman suonare nei loro pezzi ne sono rimasti
entusiasti. Anzi, sono davvero impazziti. Quindi sarà sicuramente John l’eroe
della serata, anche se sono tutti musicisti davvero fantastici.
Mi permetto di ‘rubare’ a Beppe una delle domande che ha
fatto a David Bromberg qualche mese fa, quando lo abbiamo incontrato: tu sei
nato come musicista bluegrass, ma negli anni hai introdotto nella tua musica
elementi provenienti da generi musicali diversi, così come hai utilizzato la
tecnica flatpicking per interpretare musica di ogni tipo. Come sei arrivato a
questo approccio?
Non posso dare una risposta precisa a questa
domanda. Alla fine degli anni ’60, quando sono diventato professionista, le
cose principali a cui pensavo erano le gigs a cui dovevo prendere parte e i
lavori che dovevo affrontare. Per cui, quelle che adesso capisco essere state
tappe fondamentali per la mia carriera, la scelte davvero importanti che ho
fatto, all’epoca erano solo opportunità da sfruttare per suonare, per avere la
possibilità di collaborare con i musicisti che mi interessavano. Non mi
preoccupavo assolutamente del genere di musica che si suonava. L’unica
decisione che ho preso consciamente è stata quella di vivere l’attimo, di
essere assolutamente spontaneo. Fare quello che volevo fare, senza nessuna
preclusione, senza nessun preconcetto. Certo, lavorando duramente e con
professionalità, per dare sempre il mio meglio, ma senza aver pianificato
nulla. Adesso sono molto soddisfatto di molte scelte che ho fatto in passato,
anche se non sono stato esente dalla mia dose di stupidità. La cosa importante,
all’epoca era suonare la chitarra, e suonare le cose che mi piacevano, niente
di più. Ad esempio sono molto felice di aver deciso, in quegli anni, di andare
in California per prendere parte alla nascita del progressive bluegrass, di
aver avuto la possibilità di suonare con musicisti davvero incredibili. Adesso
affronto ogni tipo di brano, che sia bluegrass, classica o blues, per il
piacere di farlo con le persone con cui suono, niente di più. Non c’è mai stato
nulla di pianificato a tavolino in questo percorso. Purtroppo non ho mai avuto
la sfera di cristallo per federe il futuro. Però ho avuto la fortuna di
incontrare persone fantastiche, in questo ambiente, come Beppe che mi ha aperto
un vero universo di possibilità: la musica romantica italiana, la sua tecnica
sullo strumento... poi tutti i posti dove abbiamo suonato assieme, posti
bellissimi. C’è una naturale affinità nel nostro modo di suonare e gli sono
molto grato per tutto questo.
Come vedi l’attuale scena musicale tradizionale
americana? Quanto questo genere di musica può ancora influenzare la produzione
contemporanea?
Ci sono molti buoni musicisti in circolazione, ma i
migliori che conosco hanno un piede nella tradizione e uno nell’innovazione. Non
c’è niente da fare, bisogna aver prima approfondito bene la tradizione per
poter produrre qualcosa di innovativo sullo strumento. E penso che questo
continuerà, allo stesso modo, per le prossime generazioni. I Punch Brother’s
sono il miglior esempio a questo riguardo. Ho avuto una piacevolissima
conversazione Chris Eldridge e mi sono reso conto quanto sia ferrato sulla
musica tradizionale e quanto ne sia influenzato. Ma, allo stesso tempo, sono
uno dei gruppi più progressivi e innovativi del genere. Una risposta sintetica
alla domanda potrebbe essere, alla fine: assolutamente sì e i migliori
musicisti contemporanei sono molto ferrati sulla musica tradizionale.
Tu passi ancora molto tempo sulla chitarra? Studi? Fai pratica?
Certo, assolutamente. Di solito lo studio e
l’esercizio sono focalizzati sui vari impegni in sala d’incisione. Che si
tratti di progetti a solo o con altri musicisti, è molto importante la fase di
preparazione prima di entrare in studio.
Chiudiamo con qualche nota sulla tua strumentazione, visto che siamo in
argomento?
Da parecchi anni, ormai, utilizzo solo il mio
modello signature della Taylor. Ha diverse particolarità: il disegno del
bracing, lo spessore della tavola differenziato e altro. Questo rende i medi
molto ‘croccanti’ e da un’ottima definizione ai bassi. Inoltre è stata
progettata espressamente per la sala di registrazione, per andare facilmente
d’accordo con i microfoni. Di recente ho smesso di fare workshop per la Taylor,
ma poco prima che la nostra collaborazione si interrompesse mi hanno consegnato
quest’ultimo esemplare, realizzato da custom shop, che mota il nuovo sistema di
amplificazione TES. Sono sempre stato votato all’estrema semplicità per quello
che riguarda la strumentazione. Per cui scoprire l’esistenza del Fishman Aura è
stata davvero una bella sorpresa. Come forse saprai, l’Aura è un sofisticato
sistema di equalizzazione, qualcosa come 2.000 bande d’intervento, che
fotografa l’immagine dello spettro sonoro della tua chitarra e lo riproduce
fedelmente. Per fare questo devi portargli al chitarra in laboratorio e loro ti
creano il programma su misura che ne riproduce l’immagine. Così non devi far
altro che collegare la chitarra al pedale, mandarla sull’impianto e hai subito
una resa ottimale. Però ho dovuto montare un piezo sulla chitarra, un Baggs,
visto l’Aura funziona solo con quel tipo di trasduttori. Inoltre, visto che ci
sono a disposizione moltissime immagini di altri strumenti, mi è bastato
comprare un po’ di pedali e posso avere suoni diversi senza neanche cambiare
chitarra. E’ il massimo della comodità.
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