Intervista pubblicata su Chitarre nel 2007
Riccardo Mori è un oggetto un po’ misterioso del nostro panorama chitaristico. Ma, dal 2004, fa stabilmente parte del line up della band che accompagna Vasco Rossi in Tour. Il simpatico musicista toscano ha saputo inserirsi con sicurezza e personalità in un contesto certo non facile da affrontare, ritagliandosi subito un suo spazio ben preciso nell’economia del gruppo e nei cuori dei fans del Blasco Nazionale.
Allora, Riccardo, cominciamo dal principio: un po’ di storia, dagli inizi fino a Vasco…
Ho cominciato a suonare a tredici anni, assolutamente autodidatta, con l’elettrica. Mi appassionava soprattutto la musica di U2, David Bowie e Beatles. Ascoltavo e provavo, cercando di riprodurre i vari riff, imparavo gli accordi dai tanti metodi in circolazione, provando a capire le cose senza accettarle meccanicamente. Ci è voluto tanto tempo e tanta passione. Il passo per cominciare poi a suonare dal vivo è stato breve. Nel tempo, ovviamente, si sono un po’ ampliati i miei orizzonti musicali, ho cominciato ad ascoltare Pink Floyd e Led Zeppelin, mi sono calato nel mondo del blues. Poi ho scoperto la West Coast, con Crosby, Still, Nash & Young, Nick Drake e altri e inevitabilemente sono approdato alla chitarra acustica. Ho suonato tantissimo in giro, fin dai primi anni ’90, nelle situazioni più disparate, cominciando a proporre materiale originale. Negli ultimi tempi ho lavorato in particolare con i Felpudo Maldito, una band che propone un rock acustico, ideale in un contesto teatrale, e con un’altra formazione, La Compagnia dei Lupi , che si occupa del recupero di brani tradizionali del centro Italia riarrangiandoli in chiave alternative rock.
Poi ho saputo che c’era la possibilità di fare questo provino per suonare con Vasco Rossi e mi sono presentato. E’ stato quasi un caso: l’architetto che ha progettato il palco dei tour di Vasco, che è un mio amico, ha sentito il produttore parlare della necessità di inserire la figura del chitarrista acustico nei live e mi ha proposto. Non so quanto fossero realmente convinti, quando mi hanno chiamato, ma ho avuto la mia possibilità e me la sono giocata bene.
E’ una bella fiaba, quasi il sogno di ogni ragazzo che suona che diventa realtà. Ti senti abbastanza miracolato?
Un po’ sì, è stato un bel colpo di fortuna. Diciamo che ho avuto la mia chance e ho saputo come sfruttarla fino in fondo. Certo, in giro ci sono tantissimi bravi musicisti cui manca solo possibilità di fare il salto di qualità. Però, a volte, bisogna anche sapersela creare l’occasione giusta, con un atteggiamento aperto e positivo ti puoi aprire lo sbocco giusto.
E’ un problema abbastanza diffuso, la difficoltà di sapersi gestire e saper afferrare le situazioni che si presentano?
E’ già abbastanza impegnativo doversi preparare sullo strumento, comporre e arrangiare. Quello della promozione è quasi un altro mestiere, che sarebbe meglio che facesse qualcun altro. E magari che lo sappia anche fare bene.
Com’è stato passare di colpo dalle birrerie ai palchi con platee oceaniche?
E’ una di quelle cose che ti cambiano la vita, completamente. Per chi, come me, al massimo aveva suonato per mille persone, ti trovi all’Olimpico davanti a settantamila fans scatenati… è una cosa pazzesca. Quando arrivi a una base d’ascolto così ampia, c’è tutta quell’energia, emotivamente senti una grande spinta. Di solito, riesco ad essere abbastanza freddo sul palco. Cerco di comprimere le emozioni, di trasferirle sulla musica e nella performance. Altrimenti corri il rischio che ti schiaccino e ti travolgano.
L’impatto con la band come è stato? E’ tutta gente che suona con lui da diversi anni…
Beh, sono entrato in un ambiente che non conoscevo, che aveva già tutte le sue dinamiche ben consolidate. Ho cercato di capire come stavano le cose, come funzionava tutto quanto. Ascoltare e imparare è stato la base di tutto. Del resto, si parla di musicisti con una storia alla spalle, gente che suona da una vita su palchi così grandi. Professionisti fantastici, creativi, che umanamente mi hanno molto aiutato. Non mi hanno mai fatto sentire fuori posto, nonostante tutto.
Ho avuto il piacere di incontrare diverse volte Stef Burns e trovo che sia un personaggio eccezionale, con quel suo modo incredibile di essere anti divo, assolutamente umano e a alla mano…
Sì, Stef in particolare è una persona simpaticissima, piacevole, molto attento ai rapporti umani. Siamo diventati subito amici, anche al di fuori del palco. Ad esempio, lui ha suonato anche nel disco, mentre io sono arrivato a giochi già fatti. E, ovviamente, ogni tanto qualche dritta gliela chiedevo. E’ sempre stato disponibilissimo, mi ha aiutato, ma con molta discrezione. Ha una sensibilità, un tatto incredibili, molto attento a non mettere mai in imbarazzo nessuno. E un cuore grande così, mi ha subito dato tanto, anche se in fondo ero un signor nessuno. Un personaggio incredibile, anche tecnicamente. E’ da vedere come scolpisce il suono della chitarra, la padronanza che ha di tutti gli elementi tecnici.
E l’impatto con il Blasco, com’è stato?
E’ fantastico anche lui. Sembra quasi che abbia due anime che convivono, più meno pacificamente. Da una parte è genuino, simpatico e assolutamente umano. Dall’altra parte di rendi conto quasi subito che, comunque, non è una persona comune. Sono due componenti indivisibili del suo essere e probabilmente è il vero segreto del suo successo. La prima volta che l’ho visto mi ha subito messo a mio agio. Sul palco siamo tutti allo stesso livello, anche se, comunque lo senti che è lui che ha in mano la situazione, che decide come devono essere fatte le cose e che, in fondo fa la differenza. E’ un professionista preciso, quadrato. Lo spettacolo deve sempre essere perfetto, in tutto e per tutto e ci tiene tantissimo. Quando facevamo le prove del gruppo, in fase di preparazione, cantava il sassofonista, Andrea Innesto, ed a volte pure io. Quando poi è arrivato lui, è cambiato tutto, ha una potenza di emissione della voce incredibile, non ho mai sentito niente del genere. Ed è un vero animale da palcoscenico, ha una presenza scenica quasi tangibile.
Quanta libertà hai avuto di mettere mano sugli arrangiamenti: quanto c’è di tuo nelle parti che suoni?
Devo dire che per essere stato inserito solo all’ultimo, ho avuto abbastanza libertà per lavorare su diverse cose. Ovviamente c’è da distinguere tra i brani tipicamente rock dove la chitarra acustica, per forza di cose, rimane un po’ dentro il mix del suono, e quegli episodi in cui, magari, siamo da soli Vasco e io. Un ottimo esempio è “E”, un brano che è uscito come singolo, che il produttore Guido Elmi voleva arrangiare in maniera diversa per il live. Mi ha subito interpellato per sentire quale sarebbe stata la mia interpretazione. Ed ero praticamente appena arrivato. La mia versione gli è piaciuta, e l’abbiamo poi sempre suonata così dal vivo. Anche “Anymore”, che tra l’altro è il pezzo che ho portato al provino, dal concerto di Roma in poi, l’abbiamo sempre fatta solo chitarra e voce, per più di metà canzone.
Visto che siamo in argomento, parliamo un po’ della tua strumentazione? Sia on stage che privata.
Con Vasco, fin da subito, ho cercato di evitare di usare le acustiche a corpo solido, tipo la Chet Atkins o le Godin. Sono ottimi strumenti, intendiamoci, però il suono non è naturalissimo. Per una produzione di quel livello secondo me ci si poteva permettere di avere delle acustiche più “vere”. Dopo le prime settimane di prove, ho abbandonato la Chet Atkins che stavo usando e dalla Gibson è arrivata una J150, una super jumbo parente stretta della più famosa SJ200. Un po’ meno rifinita, ma un suono strepitoso, definito su tutta la gamma. Per il tour del 2005 ho poi utilizzato parecchio una Martin D28, che è la mia chitarra da sempre.
In contesti così complessi è un discorso abbastanza delicato. Sulla Martin c’è montato un Fishman attivo, con un pre-amp L.R.Baggs, mentre la Gibson monta un Prefix della Fishman filtrato poi nel sistema Aura. Anche se devo dire che, onestamente, uscivo con i controlli praticamente flat e il grosso del lavoro sul suono lo facevano il fonico di palco, "Deddi", e il fonico di sala, Nicola Venieri, che sono due professionisti eccezionali. Mi sono messo nelle loro mani, ho seguito i consigli che mi hanno dato e mi sono trovato molto bene. Mi è capitato qualche volta, all’inizio, di avere un ottimo suono negli ear monitor, e poi magari arrivava in platea un po’ troppo compresso, ma abbiamo risolto quasi subito.
Qual è stato il vero segreto per far emergere bene il suono della chitarra acustica in un mix sonoro così complesso?
Avere un buon fonico, c’è poco da fare. Nessun segreto, solo un buon lavoro di squadra e saper comunicare in maniera corretta. Certo bisogna anche essere disponibili per dare un buon materiale di base su cui lavorare. Ad esempio, il problema principale spesso è l’attacco del plettro sulle corde, per cui è necessario avere una pennata leggera, con un buon tocco. Il chitarrista elettrico che imbraccia l’acustica ci picchia delle pennate tremende, magari con plettri molto spessi. Io invece uso dei Dunlop 0.60 o 0.45, molto sottili. Lavorando tanto in sala d’incisione, con l’acustica, mi sono reso conto dell’importanza di una pennata leggera, ma che al tempo stesso che rispetti le dinamiche del pezzo. In questo modo la resa del piezo migliora tantissimo, il fonico è felice e di conseguenza [ridendo] anche il chitarrista è contento. Durante le prove abbiamo dedicato un intero pomeriggio alla messa a punto di questi dettagli, per ottenere il risultato migliore, e direi che abbiamo fatto un buon lavoro. Abbiamo scelto quali chitarre usare in ogni pezzo, stando anche attenti a non scadere nel problema opposto, perché comunque sempre di rock si parla, e bisogna comunque mantenere l’intenzione dei brani senza perdere il tiro.
A casa e nelle altre situazioni che affronti, che chitarre utilizzi?
Suono ancora tantissimo la chitarra elettrica. Insegno a scuola, e la stragrande maggioranza dei miei allievi studia l’elettrica. Ho una Strato riedizione del ’57 che è lo strumento che uso di più. Poi c’è un Les Paul Standard del 2002 e una Telecaster dell’85, la serie giapponese, che ha un suono meraviglioso. Ci sono affezionatissimo, pensa che mi hanno già offerto un sacco di soldi, ma me la tengo comunque, mi piace da morire. Avevo anche un strato della stesse serie, ma me l’hanno rubata dalla macchina anni fa. Uno giorni più brutti della mia vita. C’è poi la Epiphone Joe Pass che uso principalmente quando suono con i Felpudo Maldito e con un altro gruppo con cui facciamo swing “all’amatriciana” [ridacchiando]. Facciamo pezzi di Buscaglione e dintorni, per intenderci. Di acustiche, oltre a quelle di cui abbiamo già parlato, ho poi una vecchia 12 corde Fender, fatta in Corea, che ha suono pazzesco, e una altrettanto anziana Ibanez, che mi porto sempre appresso e serve per sperimentare le accordature più improbabili. Ah, c’è poi la chitarra che ho ereditato da mio nonno, che era un geografo, sempre in giro per il mondo. Una parlor con una sonorità splendida. L’ho usata tantissimo in studio, per registrare delle parti simil-dobro. Di recente mi sto divertendo anche con una lap steel, che ho preso a Ginevra, per uno spettacolo dedicato ai Pink Floyd. Abbiamo riproposto dal vivo Shine You Crazy Diamond, integralmente, con un’orchestra di ventisette elementi (Nuovi Eventi Musicali) e l’ex cantante dei CSI, Ginevra Di Marco, molto brava. Avevo acquistato la lap-steel per suonare la part 2 del concerto, ma mi ha preso tantissimo e me la ritrovo sempre per le mani.
Adesso quali sono i tuoi progetti per il futuro, prossimo e a lunga scadenza?
Beh, ovviamente se Vasco chiama, non ci penso due volte. Adesso è in studio per registrare il disco nuovo e già si parla del prossimo tour, anche se per il momento non c’è nulla di ufficiale. Continuo a collaborare con i due gruppi di cui abbiamo già parlato, con l'indispensabile aiuto di mio fratello, Gabriele Mori, eccezionale polistrumentista. Intanto porto avanti un discorso mio solistico, vicino al filone tipicamente cantautorale. Ovviamente continuo a insegnare, in due diverse scuole di Firenze, la mia città, e con Michele Vitulli, Stefano Luchi e Emanuele Fontana sto portando avanti un progetto parallelo alla didattica tradizionale, Progetto Live appunto, in cui insegnamo ai ragazzi il lato pratico dello stare su un palco. Si suona e si jamma tutti assieme, non ti dico cosa viene fuori. Ci divertiamo come dei matti.
Ed è forse il momento migliore per avviarlo, visto l’interesse verso la chitarra acustica che c’è in questo periodo.
E’ davvero un buon momento per la chitarra acustica, anche da parte degli allievi che si rivolgono a me c’è un rinnovato interesse per lo strumento.
Ho visto che spesso ti diverti a fare delle apparizioni con alcune tribute band di Vasco, com’è il rapporto con i fans?
Sì, è vero, mi piace molto e fa parte ormai del mio vivere di musica. Si tocca con mano, più da vicino, tutto l’amore e la passione che c’è in giro per la musica di Vasco. Sono situazioni piacevoli e gratificanti. Ti riporta ad una dimensione più umana di contatto con i fans.
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